Scipione (questo era il suo nome di Beato) Burali d’Arezzo nacque ad Itri nel 1511, da Paolo, consigliere di Stato e di Guerra del re Ferdinando Ii d’Aragona, detto “ il Cattolico”, e da Victoria Olivares, dell’alta nobiltà spagnola. Egli si disciplinò nella purezza, ben per tempo, accanto alla madre, una gentildonna di Barcellona, morta ancora giovane. Scipione rifuggiva i giochi, anche con i germani Giovanni Battista, primogenito, Marcello (fu tenente generale presso i Gonzaga di Mantova) e Camillo,amava il ritiro e l’orazione, nella quale impiegava intere ore o nella propria casa o in chiesa, particolarmente in una chiesetta detta “Santa Maria della Misericordia”, nei pressi della sua abitazione, la quale era “juspatronatus” della sua famiglia.

   Scipione, di acuta intelligenza, attese agli studi di Giurisprudenza, prima all’università di Salerno (la più antica università medioevale) e poi a quella di Bologna, dove, il 1536, si laureò brillantementr “in utroque iure”, ossìa in diritto civile e canonico, con argomentazioni acute e sottil, non come un alunno, ma con la sicurezza di un professore.

   Uscito dalla “città dotta”, egli esercitò la carriera forense a Napoli, per dodici anni, meritando i titoli di “Padre dei poveri”, di “Avvocato dei poveri” e di “Dottore della verità”, titoli gloriosi che non valsero ad insuperbirlo. Il popolo napoletano apprezzò molto le sue non comuni doti tenendolo nella più alta considerazione, non soltanto per la sua solida dottrina, in modo precipuo quella filosofica e teologica,ma soprattutto per l’integrità professionale, essendo un patrocinatore imparziale ed incorruttibile, in un’epoca in cui il foro napoletano era pieno di incolti legulei e di armeggioni, di arruffoni.

   Stanco delle beghe e dei clamori dei tribunali, disgustato dai raggiri che in essi regnava, un bel giorno Scipione fuggì ad Itri abbandonando ogni comodità per darsi ad una vita umile, nascosta, tutta dedita alla meditazione delle eterne verità e ai devoti esercizi. Dalla capitale del regno di Napoli, sotto mentite spoglie di villano, Scipione scappò ad Itri, desideroso di perfezione. era il 1548. La sua era una “fuga dal mondo”, per ritirarsi nel paese natìo, nella quiete della sua solitaria casa di campagna, sita a “Valle d’ Itri”, non lontana dal secolare santuario della Madonna della Civita, che gli ispirava santità di vita.

   La sua partenza da Napoli era dispiaciuta ai suoi amici e ai suoi parenti, ma soprattutto al cugino Francesco Antonio Villani, reggente del Supremo Consiglio di Napoli, detto allora del Collaterale, che lo esortava continuamente, con lettere, a tornare nella capitale del reame e a riprendere l’esercizio della professione legale. Tali premure riuscirono inutili, per due anni, per cui il Villani lo fece nominare dall’imperatore Carlo V, allora signore di Napoli, tramite l’interessamento del viceré di Napoli, don Pietro di Toledo, regio consigliere nei tribunali della suddetta città.

   Ciò non lo fece rimuovere dal suo proponimento, per cui fu necessario un assoluto comando del viceré, affinché facesse ritorno a Napoli ed assumesse la carica di regio consigliere. Il Villani aveva inviato, nel 1550, un drappello di armigeri per rinvenirlo ed obbligarlo ad accettare la dignità che gli veniva conferita.

   I soldati lo trovarono, dopo pochi giorni, perlustrando la campagna, in località “Valle d’Itri”, nel folto di un oliveto della sua casa rurale, vestito di abito rustico, occupato a potare gli olivi. Si vuole che il novello Cincinnato fosse tratto a forza, ad assumere l’incarico.Quind vi fu, suo malgrado, costreytto con la violenza.

   Nei sei anni che esercitò tale incarico diede continue ed illustri prove della sua dottrina e della sua rettitudine nel giudicare le cause a lui commesse, del suo disinteresse, della sua abilità e destrezza singolare nel maneggiare gli affari importanti della Corona.

   Poi, sentendo fortemente la vocazione religiosa, frutto anche dell’influenza del suo confessore, il teatino Giovanni Marinoni, Scipione decise di volare le spalle al mondo e all’ambiente corrotto del foro napoletano (quando lasciò la professione forense, S. Andrea Avellino, che veniva dal foro ecclesiastico, curiale, disse che la giustizia era morta) e di abbracciare lo stato umile nella religione dei Padri Teatini. In lui risplendeva, in maniera particolare, una sincera umiltà, un’evangelica povertà, un’ardente carità e le altre cristiane virtù.

   Di S. Paolo Maggiore fu il Superiore per ben 7 volte, dal 1560 al 1568. Nel 1564 il Burali fu incaricato di portarsi alla Corte di Spagna, a Madrid, per far annullare la legge che prevedeva la confisca dei beni agli eretici Egli svolse la missione diplomatica con assoluta dedizione, condotta con sagacia, ottenendo la grazia in favore della città.

     Il 23 luglio 1568 Pio V lo dichiarò, in Concistoro, vescovo di Piacenza. Avutane notizia, Paolo andò a prostrarsi ai piedi del pontefice adducendo molte ragioni per non accettare tale vescovado, perché non era “atto a governare anime”.

   Questa volta il Burali d’Arezzo, che aveva rifiutao i vescovadi di Castellammare, d iCrotone e di Brindisi, non riesce ad evirate la nomina, perché l’intransigente Pio V, che intende rinvigorire i postulati tridentini, grazie all’austero frate, in virtù di santa obbedienza e sotto pena di peccato mortale, lo costrinse ad accettare il peso del governo della Chiesa di Piacenza, che manifestò giubilo alla notizia della nomina di monsignor Burali d’Arezzo, conosciuto come prelato di tanta virtù e santità. Paolo non deluse le speranze dei piacentini, mutando il volto della diocesi piacentina, grazie adopere costruttive e riformatrici, grazie al suo fervore, alla sua modestia, alla sua affabilità e dolcezza, che gli meritarono la venerazione di tutti i suoi diocesani.

   Nel Concistoro del 17 maggio 1570 Paolo Burali d’Arezzo fu nominato da Pio V cardinale, del titolo di S. Pudenziana. Il papa voleva onorare con la Sacra Porpora una delle figure più pure ed attive dell’episcopato del tempo, restauratore dei valori umani e religiosi, intransigente difensore della fede, ispirato alla perfezione cristiana, che ebbe con S. Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, stretti vincoli di amicizia, fatta di stima reciproca. Con il Borromeo, di cui l’itrano subì l’irradiazione spirituale, il futuro beato avviò una riforma di lunga e positiva durata, con spirito ed opere che sopravvivono ormai da circa 450 anni.

   Alla morte di Pio V, avvenuta nel 1572, partecipò al conclave anche Paolo Burali d’Arezzo, che gli “aveva chiuso gli occhi”, e poco mancò che egli salisse al soglio pontificio: S. Carlo Borromeo e Michele Bonelli, nipote del defunto pontefice, che conoscevano l’integrità della vita del Burali d’Arezzo, sostennero strenuamente l’elezione a papa dell’arcivescovo di Piacenza. Il timore della sua soverchia rigidezza spinse, però, molti cardinali a votare per il più mite cardinale Ugo Buoncompagni, salito alla cattedra di Pietro con il nome di Gregorio XIII, il riformatore del calendario, detto da lui gregoriano. Paolo stesso nulla fece per sfatare questa opinione, anzi l’accreditò,  sostenendo che egli non possedeva le doti necessarie per la cura delle anime, per discostare da sè la massima dignità ecclesiastica.

   Nel Concistoro tenuto il 19 settembre 1576 il sommo pontefice  Gregorio XIII trasferisce Paolo Burali d’Arezzo dal vescovado di Piacenza alla cattedra arcivescovile di Napoli, allora vacante. Egli ne fu amareggiato, né minore fu il dispiacere che provò la città di Piacenza di vedersi privata di un sì santo  e zelante Pastore.

   Nei diciotto mesi che il Burali d’Arezzo governò l’arcidiocesi napoletana fu veramente instancabile: non vi è aspetto della vita religiosa, da quello sacerdotale a quello liturgico, da quello sacramentale a quello devozionale, che egli non abbia tentato per il rinnovamento della società ecclesiale, per il trionfo della Chiesa e per la “salus animarum”, lo scopo precipuo dell’intera sua opera pastorale.

   Sofferente di asma bronchiale, il Burali d’Arezzo era anche afflitto da un fastidioso mal di stomaco. E come se non bastasse, egli voleva compiere anche mortificazioni corporali, digiuni e altre penitenze. I medici giudicarono necessario che si allontanasse da Napoli ed andasse a prendere aria in campagna, come fece nel maggio del 1578, recandosi  a Torre del Greco, luogo ameno e salubre, alle falde del Vesuvio, tra vigneti e giardini profumati.  Trovandosi nel palazzo vescovile, un giorno che soffiava un gagliardo vento di scirocco, volendo chiudere una finestra, questa fu dal vento con tale impeto respinta  verso di lui, che cadde all’indietro, sbattuto a terra.Gli si ruppe l’osso della coscia destra. Il vicerè, che pure lo aveva conosciuto inflessibile, in difesa della libertà della Chiesa, gli mandò alcune galee e la principessa Girolama Colonna molti schiavi per farlo riaccompagnare a Napoli. Paolo tornò in portantina. Il viaggio fu una manifestazione popolare di pietà e di lacrime. Al suo capezzale si affollarono il viceré, il nunzio apostolico e molti dei cittadini più importanti della capitale.

  Paolo, benchè dai medici gli fossero apprestati tutti i rimedi più efficaci, non ne ricevette alcun alleviamento. Sopraggiunta una fortissima febbre, dopo aver ricevuto i santi Sacramenti della Chiesa, rendette placidamente l’anima al Creatore, il 17 giugno del 1578, all’età di 67 anni. Il presule era passato agli eterni riposi, in fama di santità. Dobbiamo sottolineare che, in punto di morte, il dolore straziante per i suoi peccati, cui seguì la pace della fiducia in Dio, fu uno spettacolo edificante della pietà con cui si preparò al trapasso, di tale grandezza spirituale che indusse S. Roberto Bellarmino a presentarlo come un “exemplum satis utile” nel suo “de arte bene moriendi”.

  1. Filippo Neri, suo grande estimatore, alla notizia della sua morte, ne pianse la dipartita come un lutto della Chiesa universale e con S. Filippo Neri tutta Napoli, nonché Piacenza, come l’aveva pianto alla sua patenza per reggere l’episcopio di Napoli. S. Andrea Avellino, scrivendo a Mons. Decio Carafa, nunzio di Spagna, l’8 novembre 1607, scrisse che Dio aveva suscitato Carlo Borromeo e Paolo Burali d’Arezzo come tipi di pastori di anime per il loro tempo.

   Il corpo del Principe della Chiesa, dopo le esequie celebrate  nella cattedrale, fu portato, con immenso concorso di popolo, nella chiesa di S. Paolo Maggiore, dove, nel cimitero dei Padri Teatini, vestito dei suoi paramenti cardinalizi, gli fu data umile sepoltura. “Un intero popolo, come dice il biografo Niccolò Morelli, formò l’elogio dell’Arcivescovo Burali d’Arezzo, e tutte le autorità della Chiesa e dello Stato piansero la perdita di un uomo destinato alla gloria delola Filosofia, al vantaggio dei Popoli, al decoro della Religione”.

   Grosso rimpianto, alla sua morte, da parte dei poveri, che piangevano “per aver perso il loro padre e pastore”. Nell’amore per i poveri, chiamati  “ angeli invisibili e portinai del paradiso”, ai quali paolo insegnava la dottrina cristiana, c’era la trasfigurazione dell’amore in Cristo ed il grande desiderio di servirlo servendo i poveri. nel corteo funebre, a cui partecipò un numero straordinario di persone di Napoli e dei paesi vicini, c’erano i poveri di Torre del Greco, che indossavano le vesti nuove, donate loro dal Burali d’Arezzo.

   Il cammino verso la beatificazione fu lungo.