Formia, l’ultimo saluto al pastore Giuseppe Minchella – “Oggi, queste nostre montagne, che dal mare arrivano fino in cielo, sono più sole che mai, perché hanno perso un loro vero custode, colui che le conosceva meglio di qualsiasi altro, pietra per pietra, ‘ciauca’ per ‘ciauca’, sorgente per sorgente. Peppe e la montagna erano indivisibili: una cosa sola. I suoi occhi puntavano sempre verso l’alto, e vedeva a distanza quello che nessun’altra persona sarebbe riuscita a carpire: un punto nero, a centinaia di metri di distanza, era un cavallo, un punto bianco era una vacca, un raggruppamento di punti era un gregge di capre. Al suono di una campana, in una valle, corrispondeva il nome di un’animale; ad una formazione rocciosa una leggenda.
La montagna per Peppe era la sua casa, un mondo straordinario in cui immergersi prima del sorgere del sole, per emergere soltanto la sera, dopo essersi assicurato che ogni capra fosse stata munta e che ogni animale fosse rientrato allo ‘stazzo’. Solo quando tutto il bestiame era stato messo al sicuro, cibato e accudito, allora Peppe poteva concedersi finalmente qualche minuto di relax, attendendo l’arrivo di una visita, per fare due chiacchiere e magari per raccontare un aneddoto. Si, perché Peppe era un libro di saggezza popolare e anch’io, in quell’ libro, mi sono letteralmente perso; erano pagine di vita che mi facevano sognare e mi parlavano di un mondo antico, di una cultura atavica dove la sfida quotidiana era quella di sopravvivere, unicamente grazie alle proprio ingegno e sacrifici.
Da giovane, Peppe aveva iniziato ad allevare pochi animali a ‘parsenale’ per poi crearsi, finalmente, una mandria tutta propria, producendo carne e formaggio e ritagliandosi una fetta di clienti. Con questi proventi, era stata portata avanti la famiglia, aveva comprato la prima casa…e tutto il resto.
Peppe era il discendente diretto di un’antica famiglia Ciociara di grandi pastori che, prima della meta dell’ottocento, iniziarono a spostarsi dai propri territori alla ricerca di nuovi pascoli, arrivando fin qui. La leggenda parla di due fratelli Minchella, i quali avevano intrapreso un viaggio da Villa Latina separandosi, dopo circa 50 km, al Ponte di Pontecorvo. Uno dei fratelli avrebbe proceduto verso l’antica Monticelli (oggi Monte San Biagio) e l’altro si sarebbe diretto verso i Monti Aurunci.
Per Peppe, essere ciociaro era un vanto, lo sapeva dimostrare con orgoglio e con gesti semplici ma atavici: allacciandosi le cioce o producendo un collare di legno d’avriglie (Bagolaro) per il bestiame, o una ‘cucchiara’ di acero, etc. L’abilità e creatività di Peppe nel costruire oggetti della tradizionale pastorale non aveva uguali. Parte di questo sapere, oggi scompare per sempre e nessuno sarà mai più in grado di restituircelo.
Mi fa piacere ricordare Peppe non come l’ho visto oggi, esanime in un letto, ma ancora in transumanza, ed in groppa alla sua cavalla preferita, si chiamava Serena. Si voglio immaginarmelo proprio in quel modo! Col suo sguardo fiero e un po’ sognante, col suo cappello in feltro e l’inseparabile ‘mazza’, mentre si appresta a compiere la più lunga’ di tutte le sue transumanze, l’ultimo grande viaggio… verso l’ignoto.
Non è vero che la morte cancella tutto e persino i difetti di chi ci lascia. Io ricordo Peppe anche per questi, e il suo ‘difetto’ più grande (per me, un pregio) era proprio quello di parlare sempre in faccia, senza mezze parole. Non era per niente una persona diplomatica! Peppe rispettava l’uomo e non l’abito; per cui se c’era da mandare letteralmente a quel paese un politico o un sindaco, perché non avevano rispettato le proprie promesse, allora Peppe lo faceva senza peli sulla lingua. Insomma, non aveva paura di nessuno e neppure di scontrarsi contro il ‘potere’ e le autorità. Il suo essere ‘soltanto un pastore’ non lo faceva sentire inferiore ad altri e, quando prendeva un impegno, lo onorava a qualsiasi costo; insomma era un uomo di parola che disprezzava i falsi, i fanfaroni e gli opportunisti. Per essere amici di Peppe bisognava essere essenzialmente sinceri; a parte questo, non chiedeva null’altro e, se ti dava una cosa, lo faceva col cuore.
Il peggior nemico di Peppe non erano i lupi (di cui spesso si lamentava per i continui attacchi al bestiame), ma bensì la burocrazia di quei tecnocrati e ambientalisti da scrivania che propongono le solite irrealizzabili ricette di salvaguardia ambientale, senza conoscere minimamente la natura e senza essere in grado neppure di distinguere una capra da una pecora. Per Peppe la montagna non poteva essere separata dalla saggezza di chi l’aveva gestita e curata per centinaia di anni: ‘Noi pastori siamo i veri ambientalisti, non i cosiddetti Verdi!’…questo è uno dei tanti anatemi di Peppe, quello che ho meglio memorizzato.
C’era anche un’altra cosa che Peppe mi aveva confessato: il suo desiderio più recondito era che le campane degli animali di famiglia avessero continuato a suonare tra le montagne delle Mesole, fino a Torruto e Santo Ruano, fino alla fine dei suoi ultimi giorni e ben oltre. Fino adesso è stato certamente così e i suoi figli, Antonio e Lorenzo, mi hanno assicurato che continuerà ad esserlo, negli anni a venire.
Fai buon viaggio Peppe! Grazie per la tua amicizia e per tutto ciò che mi hai insegnato.” Queste le parole di Giuseppe scritte su Fb.













