Lettera aperta di Oliviero Casale: raccogliere l’eredità di Papa Francesco nel segno del Bene Comune

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“Il bene comune non è un concetto astratto, ma una vocazione condivisa: una direzione di marcia per
credenti e non credenti. Riflettendo sull’eredità lasciataci da Papa Francesco, sento il bisogno di
offrire una prospettiva che nasce non solo dallo studio, ma anche dall’esperienza vissuta e
dall’impegno quotidiano per la pace, la giustizia sociale e il bene comune. Questa lettera aperta
vuole essere una testimonianza personale e, al tempo stesso, un invito: riconoscere nel bene comune
non una teoria da proclamare, ma un cammino concreto che interpella ciascuno di noi.
Un cammino che riceve orientamento autorevole dalla recente bolla di indizione del Giubileo 2025,
Spes non confundit. Pur menzionando esplicitamente il bene comune una sola volta, il testo ne
richiama la logica in modo profondo e coerente lungo tutto il documento.
L’affermazione secondo cui “ogni persona umana ha il diritto a una vita degna, e ciò esige
l’impegno responsabile di ciascuno e delle istituzioni perché le risorse della terra siano equamente
condivise, nell’ottica del bene comune” racchiude con chiarezza una visione integrale della
giustizia: una giustizia che non si esaurisce nella legalità, ma si fonda sulla solidarietà, sulla
destinazione universale dei beni e sulla responsabilità condivisa. In questa prospettiva, il bene
comune non è la somma dei vantaggi individuali, ma una rete di relazioni giuste, capace di
permettere a ogni persona e a ogni comunità di fiorire.
Questa visione, che è al cuore del pensiero sociale della Chiesa, affonda le sue radici nelle Scritture.
Già nel libro della Genesi (1,26-27), l’essere umano è creato a immagine e somiglianza di Dio: un
fondamento radicale della pari dignità di tutti, al di là di meriti, status o ruoli. L’uomo e la donna
ricevono in dono la creazione, non per dominarla arbitrariamente, ma per custodirla e condividerla.
In Genesi 2,18 si legge: “Non è bene che l’uomo sia solo”, riconoscendo che la vocazione umana è
costitutivamente relazionale. Da questa condizione originaria di interdipendenza nasce il bene
comune: non come un accessorio della vita, ma come sua dimensione costitutiva.
Lo stesso principio si trova con forza negli Atti degli Apostoli (4,32), là dove si descrive la prima
comunità cristiana: “La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuor solo e
un’anima sola, e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto
era comune.” La fraternità evangelica non è qui un sentimento o un’idea, ma una prassi concreta di
condivisione e responsabilità reciproca. In questo spirito, la dottrina del bene comune si comprende
come risposta strutturale alla vocazione cristiana alla comunione.
Questa prospettiva trova conferma nel paragrafo 164 del Compendio della Dottrina Sociale della
Chiesa, che definisce il bene comune come “l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che
permettono sia ai gruppi che ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente
e più speditamente.” Non si tratta della somma di beni individuali, né di uno slogan ideologico, ma
del risultato di scelte personali e collettive orientate alla pienezza dello sviluppo umano e sociale.
La “perfezione” a cui si fa riferimento è quella della persona che realizza sé stessa all’interno di un
tessuto vivo di relazioni e istituzioni.
Il Compendio articola poi tre dimensioni essenziali. Anzitutto afferma che “il bene comune
interessa la vita di tutti”: ogni essere umano è chiamato non solo a beneficiarne, ma a contribuire a
costruirlo. È un principio che esclude ogni forma di esclusione, emarginazione o privatizzazione
della vita sociale. Il bene comune appartiene a tutti, perché tutti apparteniamo all’unica famiglia
umana. Lo ribadisce Papa Francesco nella Fratelli tutti, quando scrive: “La società mondiale ha
gravi carenze strutturali che non si risolvono con rattoppi o soluzioni veloci. Bisogna affrontare le

cause che impediscono il bene comune, e questo richiede il coraggio di pensare a un’altra logica”
(FT, 163). È un invito a ripensare profondamente il nostro modo di vivere insieme, le priorità
economiche e sociali, i modelli culturali dominanti.
La seconda parte del paragrafo 164 afferma che il bene comune “esige prudenza da parte di
ciascuno.” La prudenza, virtù cardinale, è qui intesa come intelligenza morale, capacità di
discernere nel concreto il bene da perseguire. San Tommaso d’Aquino la definiva recta ratio
agibilium – la retta ragione nell’agire. Non è esitazione o passività, ma lucidità, consapevolezza
delle conseguenze, capacità di decisione. Come ricorda Stefano Zamagni, “il bene comune è un
obiettivo che richiede partecipazione deliberata, non è mai automatico.” Agire per il bene comune
significa scegliere ciò che è giusto, non solo ciò che conviene.
Infine, il Compendio richiama con forza la responsabilità di chi esercita l’autorità: “più ancora da
parte di chi esercita l’autorità.” Chi guida la società – nel campo politico, economico, educativo o
spirituale – ha una responsabilità maggiore, poiché le sue decisioni hanno effetti amplificati. Il
Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 1902) lo afferma con chiarezza: “L’autorità non si esercita
legittimamente se non nella ricerca del bene comune.” Il cardinale Angelo Scola ha ricordato che
“una democrazia autentica si regge su cittadini formati al bene comune e su una classe dirigente
capace di responsabilità e visione.” Il potere, nella visione cristiana, non è privilegio, ma servizio:
richiede discernimento, trasparenza e attenzione ai più fragili.
Papa Francesco ci invita, in fondo, a diventare tutti “costruttori del bene comune”, ciascuno
secondo le proprie possibilità, nei contesti di vita quotidiana. Non è un appello teorico o spirituale: è
una chiamata concreta, che si esprime nei piccoli gesti. Lo scrive con semplicità: “A volte, basta
qualcosa di semplice come un sorriso, un gesto di amicizia, uno sguardo fraterno, un ascolto
sincero, un servizio gratuito.” Sono questi gli atti che costruiscono la pace, e quindi anche il bene
comune, dal basso.
E aggiunge con forza che “ciascuno di noi deve sentirsi in qualche modo responsabile della
devastazione a cui è sottoposta la nostra casa comune.” Anche azioni solo apparentemente innocue
possono alimentare ingiustizia o violenza. Per questo, “non potrà bastare qualche episodico atto di
filantropia. Occorrono, invece, cambiamenti culturali e strutturali, perché avvenga anche un
cambiamento duraturo.”
Parole che trovano piena risonanza nell’arcivescovo Matteo Zuppi, che ha spesso richiamato a un
impegno diffuso, concreto e responsabile. In un’intervista del 2023 ha detto: “Il bene comune non è
un’astrazione, è fatto di scelte, di prossimità, di rispetto, di cittadinanza attiva, di attenzione ai più
fragili: è il contrario dell’indifferenza.” In una lettera al mondo del lavoro scriveva: “Ogni lavoro è
un servizio alla casa comune. Ci sono lavori silenziosi, che nessuno nota, e che proprio per questo
sono fondamentali: servono gli altri anche quando nessuno li vede.”
E ancora, durante la prolusione per l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Parma
(18 marzo 2025), Zuppi ha affermato: “La via della pace è sempre quella del dialogo. Il vero
pacifista è un artigiano della pace, la costruisce nei fatti.” L’artigiano lavora con pazienza,
precisione e tenacia. È una metafora potente per descrivere l’atteggiamento del cittadino attivo,
dello studente, dell’insegnante, del lavoratore, del politico.
Costruire il bene comune significa allora assumere un compito condiviso e necessario: vivere con
attenzione, scegliere con responsabilità, agire con giustizia e contribuire, giorno dopo giorno, a una
società più umana, più giusta, più solidale. Non è solo un ideale etico: è un’urgenza storica, una
speranza concreta, una vocazione collettiva.

E forse è proprio questo il messaggio che Papa Francesco — scomparso solo da pochi mesi — ha
voluto affidarci per il futuro: una testimonianza profonda, coerente e vitale, che continua a
interpellarci e a guidarci nel tempo della complessità. Un’eredità spirituale e sociale che chiede di
essere accolta, vissuta, incarnata.
Un’eredità che il cardinale Zuppi raccoglie e rilancia con forza: un mondo in cui ognuno sia
accolto, nessuno escluso, e tutti si sentano realmente corresponsabili del destino comune. In un
tempo segnato da conflitti, solitudini e fratture, questa visione non è utopia, ma direzione. Non è
solo memoria di un pontificato profetico, ma appello vivo alla nostra responsabilità quotidiana. E in
questo orizzonte si fa chiara la consegna che ci resta: continuare a costruire, con umiltà e tenacia,
quel bene comune che Papa Francesco ha indicato come via per una nuova umanità.” Lo comunica Oliviero Casale in una nota.