Quintus Horatius Flaccus, più noto semplicemente come Orazio nacque a Venosa, l’8
dicembre 65 a.C. e si spense a 57 anni a Roma, il 27 novembre 8 a.C. “Carpe diem quam
minimum credula postero”, ossia, letteralmente «Cogli l’attimo e confida il meno possibile
nel giorno dopo». Il poeta e scrittore Giovanni Aniello, minturnese doc, ci ha donato un libro
su Orazio e le donne. Ci spiega lo stesso autore, con il suo tono affabile e cortese: “Questo
libro può considerarsi un seguito del precedente a cui somiglia per consistenza e struttura:
precedute da una breve nota introduttiva si susseguono, con testo latino a fronte e con la mia
traduzione, 20 Odi e un Epodo che compongono una breve galleria di figure femminili che si
sono fissate per sempre nell’immaginario letterario e che ci rivelano allo stesso tempo lo
sguardo del poeta sull’universo femminile del suo tempo: un tempo, quel I sec. a.C., segnato
da un profondo processo di trasformazioni politico – istituzionali ed economico – sociali e da
un rimescolamento di ceti e valori, in cui anche le donne diventarono spigliate protagoniste
della vita sociale, economica e politica. Ne accennerò brevemente solo qualche aspetto ad
integrazione della nota introduttiva funzionale a contestualizzare i contenuti del libro. Intanto
il dilagare della ricchezza che sconvolse i principi della vecchia società agraria e permise
l’affermarsi di una nuova classe mercantile che faceva appunto della ricchezza l’elemento
essenziale per mantenere quella posizione. Ne derivò pertanto un più feroce e dispendioso
scontro politico con un costo insostenibile della vita pubblica e di quella privata. Il lusso si
impadronì della classe dirigente e la rivalità nell’ostentazione provocò quella follia del denaro
che apparve, almeno ad Orazio, la caratteristica più immorale del suo tempo. (Infatti
denunciò la sfrenata mania dei nuovi ricchi di costruire lussuosi palazzi con vaste piscine,
giardini ed enormi porticati in contrasto con i tempi antichi in cui il decoro fastoso veniva
riservato solo agli edifici pubblici e ai templi degli dei.) Sul fronte femminile si registrò una
sempre maggiore insofferenza da parte delle aristocratiche verso quei valori del mos maiorum
che avevano finito per ingabbiarle nel ruolo di mogli e madri non consentendo loro di godere
delle maggiori libertà di comportamento permesse a liberte e straniere che però trovavano
grande difficoltà di piena integrazione nella società romana per lo scarso decoro e la scarsa
considerazione delle loro attività. Altra conseguenza del cresciuto tenore di vita fu la
denatalità: già al tempo di Cicerone erano rare le grandi famiglie romane con più di 2 -3 figli
e anche i tentativi di Augusto di ridare dignità al matrimonio facendone un’istituzione
funzionale alla natalità e di ricondurre l’aristocrazia a un certo grado di sanità morale se
voleva continuare ad essere l’elemento portante dell’impero dovettero rivelarsi assai ardui se
anche un poeta come Properzio, appartenente come Orazio al circolo di Mecenate e quindi
organico al potere, manifestava forti perplessità nei confronti di una legislazione così invasiva
verso la vita sentimentale e affettiva dei cittadini e si rifiutava assolutamente di offrire
figli – soldati alla patria ( unde mihi patriis natos praebere triunphis? / Nullus de nostro
sanguine miles erit. Dove troverò il coraggio di offrire figli ai i patrii trionfi? / Non avrete
soldati della mia discendenza. Elegie II,7) D’altra parte anche Orazio non ci risulta che si sia
sposato e abbia avuto figli. Il fatto è che i romani delle classi dirigenti non erano entusiasti
del matrimonio. Li spingevano a preferire il celibato l’idea di poter effettuare spese folli
senza l’angustia di dover preservare il patrimonio a possibili eredi e la richiesta di sempre
maggiore libertà e autonomia da parte delle future mogli. In effetti alla fine della repubblica
le donne avevano sostanzialmente raggiunto la propria indipendenza e non volevano certo
rinunciarvi: stipulavano ormai contratti matrimoniali meno gravosi, gestivano il proprio
patrimonio, potevano facilmente divorziare se fosse venuta meno la volontà di stare insieme
senza perdere del tutto la dote (solo se ci fossero stati figli e se la donna fosse risultata parte
colpevole in una causa di divorzio il marito ne avrebbe potuto trattenere un sesto per ogni
figlio, ma non più di tre sesti complessivi). Furono cambiamenti che trasformarono i rapporti
familiari e di coppia e che coinvolsero anche gli ambienti più conservatori come si evince
dalle lettere di Cicerone che mettono a nudo i turbolenti rapporti suoi e di suo fratello Quinto
con le rispettive mogli (Terenzia e Pomponia) che portarono, tra spigolosità di carattere e
contrasti sull’amministrazione familiare e patrimoniale, a separazioni e divorzi. Forse fu
quest’assottigliarsi della differenza tra matrimonio e coabitazione e la tendenza delle donne
libere a divenire indocili compagne a spingere molti uomini di vari strati sociali a preferire al
matrimonio la convivenza con una libertà su cui potevano ancora esercitare l’autorità di un
patronus. Ma nonostante questi cambiamenti restava comunque solida la divisione
dell’universo femminile
tra le aristocratiche legalmente sposate e abilitate a trasmettere ai figli lo status di cittadino
romano e le altre: le prime, riconoscibili già dall’abbigliamento, pressoché inavvicinabili e
protette per legge (solo nei loro confronti erano previsti e perseguiti i reati di adulterio e di
stupro); le altre (schiave, liberte, prostitute e straniere) disponibili e tutto sommato funzionali
a preservare le stesse aristocratiche da numerose gravidanze e quindi dal rischio di probabile
morte da parto senza penalizzare la vita sessuale dei loro mariti. Ma anche loro, le
aristocratiche, sottoposte a un capillare controllo familiare, educate fin da piccole alla
continenza e sposate appena adolescenti a uomini più
maturi, erano pronte a tradirli non appena scoprivano l’amore e la passione, desiderose di
vivere
una vita più libera. Di qui la riottosità sia nei confronti di nuove e pericolose gravidanze oltre
le tre
che per legge consentivano loro di ereditare sia nei confronti della legislazione augustea che
le
obbligava al matrimonio (tra i 20 e i 50 anni) anche se divorziate o vedove, quando cioè
avrebbero
potuto liberamente programmare la propria vita.
Altro aspetto che vorrei evidenziare è come la letteratura rispecchi, quando addirittura non
anticipi,
queste trasformazioni: già la poesia di Catullo è segnata da una totalizzante esperienza
amorosa e
da una subalternità del poeta nei confronti della donna amata in netto contrasto con i
comportamenti dell’uomo romano, soprattutto se appartenente ai ceti dominanti o emergenti,
a cui
non si addiceva sospirare per una donna. Ma è anche sintomatico dei nuovi tempi che a
rompere questo legame d’amore tenero e passionale tra Catullo e Lesbia, vissuto così
intensamente e liberamente contro ogni regola sociale, siano stati i anifesti tradimenti di lei
che aveva preferito una vita pienamente libera alla sottomissione e fedeltà al suo uomo.
La poesia catulliana anticipa la poesia elegiaca di Tibullo e Properzio, contemporanei di
Orazio, caratterizzata dagli stessi amori tormentati, dalla stessa identificazione tra scelta
poetica e scelta di vita, dallo stesso modello di donna libera: è come se Lesbia avesse passato
il testimone a Delia e Cinzia, protagoniste di questa nuova poesia. Orazio, invece, quando si
accosta alla poesia elegiaca, tende ad assumere nei confronti delle donne e degli innamorati
un atteggiamento emotivamente più distaccato, tra ironia e disincanto, ma non sempre
sufficiente a mascherare sentimenti più profondi e personali. (la reazione di gelosia nel
vedere Lidia in effusioni amorose con convitati avvinazzati e l’immagine di concordia e
fedeltà di una coppia felice che chiude l’ode 13 del I libro che avete ascoltato nella lettura
iniziale ne sono un esempio).
E sempre sul suo rapporto con le donne mi sono chiesto anche quanto abbiano concorso
all’indisponibilità di Orazio a relazioni profonde e durature il rapporto problematico con la
figura materna e la morte prematura di Cinara, amore giovanile e forse unico vero amore
della sua vita. A fronte degli attestati di riconoscenza verso il padre, non c’è traccia nei suoi
scritti della figura materna Una madre mai conosciuta (forse morta di parto alla sua nascita o
nei primissimi anni di vita) o di così infima condizione (forse una schiava del padre liberata e
sposata prima che il poeta nascesse o, peggio, di origine giudaica come azzarda qualche
studioso) da vergognarsene al punto da cancellarla definitivamente dalla propria memoria.
Una madre impresentabile per un giovane poeta in ascesa e desideroso di scalare notorietà e
sicurezza sociale. Anche l’amore giovanile per Cinara prematuramente scomparsa e
rimpianta per tutta la vita fu
certamente un’esperienza che lo segnò (Non sono qual ero quando mi aveva in suo potere
Cinara soave” e “non mi attrae più donna né fanciullo, né creduta speranza di reciproco
amore” Odi.I,4.) Dopo Cinara Orazio comincia a vedere l’amore e la donna in modo diverso,
limitandone l’interesse all’aspetto erotico, alle gioie che la compagnia femminile può
procurargli: compagna di banchetti, di conversazione, di canti e musica, senza però
quell’impegno profondo e duraturo, nemico di un equilibrio e di una serenità così a lungo
inseguiti e così faticosamente raggiunti. Donne e banchetti diventano elementi inscindibili
della sua poesia e della sua vita ed è questo mondo conviviale che caratterizza la vita galante
di quel ristretto ceto aristocratico che anche il poeta frequenta ad essere rappresentato nelle
Odi: un mondo fatto di giovani liberte e di etere, di suonatrici di cetra e cantanti, di ragazze,
di vedove e divorziate che giravano attorno ai potenti e ai loro protetti, tra salotti, feste, vino,
conversazioni, musiche eccitanti, assalti alle case delle etere. Delle matrone tende a parlarne
solo in generale per la sua limitata frequentazione di quel mondo. Ne denuncia comunque la
decadenza dei costumi avendo aderito convintamente alla campagna moralizzatrice voluta da
Augusto. Un mondo variegato e complesso dunque quello da cui emergono le donne delle
Odi: fanciulle scontrose o sognatrici, donne consapevoli del proprio fascino, donne anziane
libere e desiderose di godersi ancora la vita. Insomma, al di là dei loro nomi veri o inventati,
donne reali, attrici e testimoni di una società in evoluzione.
Questo il libro. Ma siccome a determinarne la specificità è il lavoro di traduzione (che è
quello che ha richiesto più tempo, impegno e attenzione) voglio concludere con qualche
breve riflessione sul perché ho sentito l’esigenza di tradurre Orazio e cosa ha significato per
me questa esperienza. Ognuno di noi ha un autore preferito. Il mio è Orazio perché pur a
distanza di secoli ci accomuna quello stesso sentimento di angoscia derivante dalla impietosa
fuga del tempo e all’imprevedibilità del caso che sembra l’unico a governare la nostra vita se
non riusciamo più a trovare risposte o conforto nella religione e nella scienza i cui poteri si
sono rivelati fallimentari come ci hanno sempre più frequentemente ricordato esperienze
collettive e personali. Sono temi profondi ricorrenti nella sua come nella mia poesia: entrambi
testimoniamo affanni e tribolazioni di un’esistenza ingabbiata nel tempo e nello spazio
facendoci specchio in cui altri possano riflettersi e trovare conforto, nella consapevolezza di
un comune destino di pena. È il compito della poesia e dei poeti. Alcuni vanno oltre: con le
proprie differenti sensibilità provano a cercare e a proporre una propria via d’uscita o di
liberazione. Orazio l’ha trovata rifiutandosi di proiettarsi nel futuro e nel mondo, rifugiandosi
nell’oggi e nel rapporto con la natura convinto che limitare i legami profondi, controllare
sentimenti e passioni, fare un uso parco delle cose potesse permettergli di raggiungere
equilibrio e serenità. Un poeta che mi è congeniale ed empaticamente vicino dunque, che
vorrei far rivivere, far parlare anche a chi non parla la sua lingua.
L’empatia certo aiuta ma non risolve. Perché tradurre non è un lavoro semplice: inizia con un
gesto violento sia nei confronti del testo che si vuole tradurre che del suo autore: non si può
infatti tradurre senza rompere e frantumare la musicalità del testo originario che è data dallo
stretto legame tra suono e senso così proprio di ogni lingua perché ogni lingua ha una propria
sonorità. Anche il poeta tradotto viene espropriato di ciò che ha di più proprio: la sua lingua.
Ma questa sonorità spezzata andrà in qualche modo ricomposta e restituita anche nella nuova
lingua. Tradurre allora è quel faticoso tentativo di ricostruire in qualche modo quella sonorità
anche nella nuova lingua di arrivo e di far sentire ai nuovi lettori almeno un’eco di quelle
stesse sensazioni provate dai lettori in lingua originale. Lavoro non semplice che si sviluppa
attraverso confronto e dialogo e che termina con l’accogliere il
testo e il suo autore nella nuova lingua pur nella consapevolezza che è altro da noi. Dicevo
confronto e dialogo perché anche il traduttore è ospitato dalla lingua del testo originale per
conoscerne a fondo il senso, la particolarità di stile, di modi e di toni del suo autore per
poterli far sentire (testo e autore) a proprio agio nella nuova dimora che sta loro preparando.
Ma perché ciò avvenga chi traduce deve preparare una lingua accogliente, affinare gli
strumenti, conoscere le caratteristiche della poesia della propria lingua, della sua storia, per
scegliere la forma migliore da adattare a quei contenuti. Insomma chi traduce deve stare sul
confine di 2 lingue, essere il guardiano della soglia, come ci ricorda Mino De Angelis:
vigilare che la traduzione da una lingua all’altra non sia meccanica, non sia una trasposizione
pura e semplice, ma conservi il passo, l’ombra, il profumo, il respiro
dell’opera tradotta. Far sì che ci sia una corrispondenza che non è né un calco né una
simmetria, tantomeno una traduzione interlineare. Corrispondenza – ci ricorda ancora De
Angelis – contiene il verbo rispondère (=dare una risposta) e chi traduce deve provare a dare
una risposta all’esigenza di quel testo di durare, di oltrepassare lo stretto confine del suo
tempo e di arrivare fino a noi. Tentativo impegnativo, che ho provato nel mio piccolo, ma è
questa sfida ad animare chi ci prova. Penso in conclusione che l’esperienza del tradurre ci fa
mettere in gioco il rapporto con l’altro, ci fa riconoscere alterità anche molto lontane, ci
prepara al dialogo e all’ascolto. È perciò una esperienza che ci arricchisce e non solo come
poeti, ma soprattutto come uomini”. Il che non è certo secondario, visti i tempi che viviamo.