Franco Vaccari, artista visionario scomparso oggi, ha lasciato un segno profondo nell’arte contemporanea italiana e internazionale grazie a una pratica radicale e concettuale, capace di fondere fotografia, installazione, performance e partecipazione pubblica. La sua opera più iconica resta legata a un oggetto quotidiano e popolare: la cabina fotografica automatica.
Nel 1972, alla Biennale di Venezia, Vaccari sconvolse i canoni dell’esposizione d’arte con Esposizione in tempo reale n.4. Al posto di opere finite, installò una semplice cabina automatica, invitando i visitatori a scattarsi fotografie. I ritratti venivano poi appesi in tempo reale su una parete bianca, componendo un’opera collettiva, mutevole e potenzialmente infinita. Nessun controllo da parte dell’artista, nessun filtro: solo la partecipazione del pubblico, che diventava parte integrante dell’opera.
Questo gesto fece scuola. La cabina automatica, simbolo dell’identità istantanea, fu elevata a strumento artistico, capace di svelare la società, l’egocentrismo, la maschera quotidiana. Vaccari parlava di “esposizioni in tempo reale”, opere aperte, processuali, dove l’autore si faceva da parte per lasciare spazio al reale.
Nato a Modena nel 1936, Vaccari si formò tra ingegneria e arte, distinguendosi fin dagli anni ’60 per un approccio sperimentale alla fotografia. Fu tra i primi a teorizzare l’uso della fotografia non come rappresentazione del mondo, ma come traccia, documento, azione. Il suo lavoro fu apprezzato anche all’estero, esposto in prestigiose sedi e incluso in collezioni permanenti.
Ma fu proprio quella cabina fotografica, spogliata della sua funzione burocratica e trasformata in dispositivo poetico, a consacrarlo. Un gesto semplice, ma dirompente, che ancora oggi ispira artisti in tutto il mondo. Con la sua scomparsa, l’Italia perde un pioniere dell’arte concettuale, ma il suo insegnamento – “lasciare una traccia” – continua a vivere, in ogni sguardo riflesso dentro una cabina automatica.













