Nonostante un trend positivo negli ultimi anni, il mercurio — e in particolare la sua forma più tossica, il metilmercurio — continua a rappresentare una minaccia per chi consuma pesce in Europa. Lo rivela una revisione sistematica pubblicata sulla rivista Foods da un gruppo di ricercatori italiani, in gran parte membri del Comitato Nazionale per la Sicurezza Alimentare (CNSA), rinnovato di recente.
Gli studiosi — tra cui Riccardo Fioravanti, Luca Muzzioli, Eleonora Maurel, Giuseppe Palma, Giorgio Calabrese, Alberto Angioni, Cinzia La Rocca, Alberto Mantovani, Andrea Pezzana e Lorenzo Maria Donin — hanno analizzato 74 studi pubblicati tra il 2000 e il 2024 sulle concentrazioni di mercurio totale e metilmercurio nei prodotti ittici europei.
Il quadro che emerge è complesso: sebbene la contaminazione sia in diminuzione, alcune specie superano ancora i limiti di legge fissati dal Regolamento (UE) 915/2023. In particolare, risultano a rischio tonno rosso (Thunnus thynnus), pesce spada (Xiphias gladius), rana pescatrice e nasello, con concentrazioni che in diversi casi eccedono di molto il limite europeo di 1 mg/kg.
Il tonno rosso può raggiungere picchi di 3,37 mg/kg, mentre il pesce spada arriva a 2,4 mg/kg. Il Mar Mediterraneo, e in particolare l’Adriatico, si conferma una delle aree più problematiche. Circa un terzo degli studi condotti in questa zona riporta livelli di mercurio superiori ai limiti normativi. Le cause sono molteplici: da fattori naturali, come i depositi di cinabro e i sedimenti contaminati, a cause antropiche legate all’attività industriale e mineraria.
Tra il 2000 e il 2012, il 33% dei campioni superava i limiti di legge; tra il 2012 e il 2024, la percentuale è scesa al 28%. Una riduzione parziale, che gli autori collegano anche agli effetti della Convenzione di Minamata e alle norme europee più restrittive sull’uso industriale del mercurio. Un dato positivo arriva invece dall’acquacoltura: i pesci allevati mostrano livelli di mercurio molto più bassi rispetto a quelli selvatici, grazie al controllo dei mangimi e delle acque. In tre studi su quattro, nessun campione di tonno allevato ha superato i limiti europei.
L’EFSA ribadisce che il metilmercurio è una delle principali fonti di esposizione alimentare a questo metallo pesante, con donne in gravidanza e bambini tra le categorie più vulnerabili. Gli esperti consigliano di variare le specie consumate, limitando il pesce spada, il tonno e gli altri grandi predatori, e privilegiando pesci piccoli come sardine, alici, sgombri e orate. Il Comitato Nazionale per la Sicurezza Alimentare ricorda che «il pesce resta un alimento prezioso, ma la sicurezza dipende da quali specie scegliamo e da quanto spesso le portiamo in tavola».
Come sottolineato da Il Fatto Alimentare nella sua inchiesta, la vicenda presenta un aspetto poco trasparente: il Ministero della Salute non ha reso pubblico il parere del CNSA da cui trae origine la ricerca. Un’omissione sorprendente, considerando che si tratta di un documento tecnico-scientifico di rilevanza pubblica, che dovrebbe servire a orientare le politiche di sicurezza alimentare e a informare i cittadini.
La scelta del Ministero alimenta dubbi sulla gestione della comunicazione istituzionale in materia di salute pubblica. Mentre la ricerca evidenzia dati chiari e utili alla prevenzione, l’assenza di trasparenza rischia di indebolire la fiducia dei consumatori nelle autorità di controllo.
Come nota Il Fatto Alimentare, è paradossale che un comitato di esperti — rinnovato proprio per rafforzare il ruolo tecnico-scientifico del Ministero — produca un’analisi accurata e aggiornata, e che questa venga poi “oscurata” dalla stessa amministrazione che dovrebbe diffonderla.
In un momento storico in cui la sostenibilità alimentare e la sicurezza dei consumatori sono al centro del dibattito pubblico, il caso del mercurio nel pesce dimostra quanto sia urgente un approccio trasparente, basato su dati aperti e verificabili.
Il mercurio nei prodotti ittici europei è in calo, ma resta un problema di salute pubblica. Il progresso c’è, ma non basta — e la mancanza di chiarezza istituzionale, come evidenziato da Il Fatto Alimentare, rischia di compromettere la fiducia dei cittadini in una questione che riguarda tutti: ciò che portiamo in tavola.













