Oltre ai mille di Garibaldi ci furono anche i mille di Salzillo
Francesco II di Borbone, ultimo re di Napoli, somiglia un po’ a quel capitano nato dalla fantasia di Joseph Conrad – il Capitano MacWhirt – che, malgrado fosse un tipo ordinario e apatico, nel momento in cui decide di affrontare il tifone lo fa con coraggio, quasi con spavalderia e sprezzante del pericolo. Sfida la furia del mare dirigendosi dritto nel centro dell’uragano. Sì, Francesco II, nonostante il prudente consiglio del generale Giosuè Ritucci di sciogliere le truppe e rifugiarsi immediatamente a Roma, ostinatamente resiste all’assedio di Gaeta per decine di giorni; talmente feroci, i bombardamenti, da colpire persino i feriti nei propri letti. Si direbbe che Francesco ci vada dentro il cuore dell’assedio, convinto di potercela fare, dando in quell’ultima disperata battaglia prova di grande determinazione e dignità.
Francesco II, all’epoca dell’assedio di Gaeta, aveva venticinque anni e sua moglie Maria Sofia di Wittelsbach (sorella della più famosa Sissi, Elisabetta d’Austria) ne aveva diciannove. Cosa animò di così tanto ardire l’anima del sovrano, a parte la giovane età in cui ci si crede pronti a tutto e in grado di ottenere tutto? Certamente la notizia che un certo Teodoro Salzillo, un intellettuale appartenente ad una ricca e notissima famiglia molisana di Venafro, guidando uno sparuto gruppo di mille uomini mosse all’attacco dell’esercito garibaldino, riportando notevoli successi. Occupò, infatti, Isernia e Pettoranello, liberò Forlì del Sannio sequestrando la cassa delle camicie rosse che conteneva settemila ducati, ripristinò persino una serie di amministrazioni borboniche e alla fine portò i suoi uomini fino a Gaeta. E qui, immaginiamo, Francesco II se non urlato abbia almeno gioito con vigore, sperando davvero di invertire le sorti del suo regno. Follia? Non lo sappiamo con certezza però qualche possibilità l’avrebbe avuta se non avesse dovuto sopportare un’incredibile serie di voltafaccia, di vigliacche fughe dei suoi capi militari, di vendita delle proprie navi da parte dei comandanti della marina borbonica, di abbandono di molti soldati ai propri doveri. Ma è proprio qui il punto! Francesco II sapeva tutto, e allora perché ostinarsi per cento giorni -dal 5 novembre 1860 al 13 febbraio 1861- nel difendere Gaeta? Diventata ormai metafora del suo destino, una sorta di luogo quasi irreale, protetta con ardore e ingenuità, come un
Don Chisciotte della Mancia.
La mattina del 3 settembre del 1860 Francesco II lasciò Napoli, la bella Napoli, a bordo del veliero Messaggero, con cui raggiunse Gaeta. Per lui la situazione, nella capitale del Regno, era diventata insopportabile, opprimente. Sul veliero, accarezzato dal vento, ritrovò la fiducia, tanto che non pensò ad un addio poiché in cuor suo la speranza un giorno di rientrare a Napoli era viva. Il vento gli entrava dentro, gli empiva gli occhi e l’anima. Quasi ritrovò la serenità ma sappiamo che non c’è allegrezza che regga a lungo davanti a certi aspetti sinistri della vita. Era fuggito da Napoli stanco e avvilito, tradito e abbandonato dalla sua flotta. Ma ora, in prossimità di Gaeta, osservando il cielo azzurro e, in lontananza, le montagne, ritrovò conforto. Forse, pensava il Re, potremmo sconfiggere i garibaldini e riprendere la guida assoluta della monarchia!
La notte prima c’era stata una luna luminosissima la cui luce aveva imbiancato le acque del mare. Davanti a quello splendore e a quella sconfinata bellezza, Francesco restò sveglio. Sentì un colpo nello stomaco, che gli si ristrinse ancor di più meditando sulla sua vita; non si aspettava una caduta così repentina! Lo sguardo fisso verso la costa, mentre il freddo avvolgeva ogni cosa e dal cielo nero come la cenere si udivano solo i gabbiani garrire, che rompevano il silenzio del buio.
Quando mise piede nella città di Gaeta il tempo era improvvisamente cambiato. Ora una luce grigiastra aveva preso il posto di quella azzurra. Accompagnato da quei pochi uomini rimastigli fedeli nella stanza della fortezza, Francesco sedette sul letto e per qualche secondo fissò il pavimento. Gli facevano un po’ male gli occhi. Strinse le mani della sua amata Maria Sofia, a cui avrebbe voluto dire parole belle, parole impossibili ma il momento era tragico. Dalla finestra entrava un venticello fresco e un odore di erba umida.
Il Re pensava a Salzillo, con la stessa speranza in cui un naufrago vede un’imbarcazione a poche centinaia di metri da lui. I mille uomini portati dal ricco intellettuale molisano però non costituivano un’armata solida e infatti nulla poterono contro l’esercito piemontese capeggiato dal generale Enrico Cialdini. Ma quando siamo vicini alla sconfitta, non ci resta che aggrapparci persino alle deboli illusioni. Furono tre mesi di fuoco nemico e Gaeta fu cannoneggiata sia da terra che da mare. Al comando della Regia Marina Sarda vi era il conte Carlo Pellion di Persano. I soldati borbonici cadevano come muoiono dietro i vetri le mosche nei freddi dell’inverno. Una vera caccia spietata, senza pietà.
Il generale Cialdini poteva avvalersi della rigatura della canna di cannone che consentiva di imprimere ai proiettili un’accelerazione e una capacità di penetrazione fino ad allora sconosciute. Ai primi di febbraio uno di questi proiettili centrò la polveriera più importante di Gaeta e il nemico faceva un sacrificio di vittime umane agli dei degli inferi, come ebbe a scrivere il ministro borbonico Pietro Calà d’Ulloa. Chiuso in uno scoglio piccolo ma che si trasformò in una sorta di labirinto mentale, Francesco II si distinse per intrepidezza eroica. Non sappiamo se abbia molto pregato in quei frangenti (portò con sé vari oggetti di devozione) ma mai chinò la testa contro la violenza degli avversari. Cialdini fu guidato da un’autentica ossessione, come quella che mosse il Capitano Achab contro Moby Dick. Quasi desiderasse prenderlo per i piedi a quel maledetto re borbonico che si ostinava a non capitolare, malgrado ormai l’Italia era stata fatta! Persino le elezioni si ebbero durante l’assedio di Gaeta, il 27 gennaio del 1861 – il 3 febbraio i ballottaggi – con la vittoria della Destra storica di Camillo Benso di Cavour.
Sotto il peso visibile del dolore, ma mai della vergogna, Francesco II guardava il mare e i gabbiani sfiorare le onde e ancora dentro di sé sentiva di poterne uscire vittorioso. Chi gli riempiva il cuore di così tanta fiducia solo Dio lo sa. Il freddo, pungente anche di giorno, non lo scalfiva. Camminava continuamente all’interno della sua stanza (nella sua mente la stanza di comando ma adesso, in quella situazione, sarebbe stato difficile badare persino ai suoi fantasmi), tenendosi vicino Maria Sofia, che come lui, forse più di lui, era ostinata a non arrendersi. Quando però i colpi divennero terribili e senza scampo, anche il Re traballò un pochino e questa volta gocce di sudore ghiacciato scivolarono lungo il suo collo. Il suono assordante degli spari picchiava con violenza sulle finestre. C’erano talmente tanti colpi di cannone che il cielo si era trasformato in un quadro di lampi infernali. Persino le pareti della sua camera ormai erano rossastre per la luce che proveniva dall’esterno. Fuori c’erano corpi sparsi in ogni dove e sembrava quasi che il sole stesse emanando un ultimo respiro.
Francesco capì allora che quel sole morente non rappresentava altro che la fine del suo regno. Il 13 febbraio 1861 nella villa reale dei Borbone (già villa Caposele, attualmente Villa Rubino, a Formia) venne firmato l’armistizio.
Il 14 febbraio il sovrano lasciò Gaeta, assieme a Maria Sofia. Si imbarcarono sulla nave da guerra francese Mouette per recarsi in esilio a Roma, dal Papa. C’era un bagliore color acquamarina che riempiva il cielo e sul volto dei reali un freddo nervosismo.













