Il suo viaggio tra successi e il potere universale della musica
Il sassofonista jazz Gianni Bardaro, figura di riferimento nel panorama musicale internazionale, ci parla delle sue esperienze artistiche e del potere trasformativo della musica. Nato a Formia, si è diplomato con lode in Sassofono al Conservatorio O. Respighi di Latina e successivamente in Musica Jazz al Conservatorio S. Pietro a Majella di Napoli. Nel 2019 ha ricevuto un Latin Grammy come sassofonista solista nell’album Andrés Cepeda Big Band, pubblicato da Sony Music. Specializzato in improvvisazione e arrangiamento jazz al Rhythmic Music Conservatory di Copenaghen. Attualmente vive a Bogotà.
Lei ha girato il mondo con il suo sax. Come le diverse culture hanno influenzato il suo modo di fare jazz?
«È inevitabile cambiare quando abitiamo in paesi diversi. Io ho vissuto in tre nazioni molto differenti tra loro: l’Italia, con le sue radici e tradizioni; la Danimarca, più nordica e introversa, che mi ha insegnato il rigore e la riflessione; la Colombia, simile a noi per il calore umano ma più esotica e colorata grazie alla sua cultura latina. In questi ambienti si attiva un processo di osmosi emotiva e culturale che allarga la mente e il cuore. Essere aperti a cogliere il meglio di ogni sapere diventa fonte di grande crescita artistica e personale, che inevitabilmente si riflette nel modo di fare musica».
Nella sua carriera artistica è stato più legato al bebop, in particolar modo quello dei jazzisti neri, oppure ai canoni della tradizione?
«Sono cresciuto musicalmente con il bebop, che ha acceso in me la passione per il jazz, iniziata proprio ascoltando un disco di Charlie Parker. I primi anni di studio sono stati parecchio focalizzati su questo linguaggio complesso, fatto di armonie intricate, ritmi incalzanti e una grande libertà espressiva. Successivamente, la mia ricerca si è allargata ad altri stili e forme, perché credo che il musicista debba sempre esplorare e ampliare i propri orizzonti. Tuttavia, il bebop resta per me una radice fondamentale, una fonte inesauribile di ispirazione ed evoluzione».
Abbiamo avuto fantastici e geniali sassofonisti italiani, come Fulvio Sisti e Massimo Urbani. Cosa ne pensa della situazione contemporanea?
«Ricordo un aneddoto prezioso: quando avevo diciannove anni e studiavo al conservatorio, incontrai una cara amica di Massimo Urbani, la quale mi disse che le ricordavo molto di lui anche nel volto. Un pensiero che custodisco con affetto. Oggi la scena jazz italiana è molto cambiata: oltre ai grandi nomi consolidati, mi sorprende la nuova generazione di giovani musicisti. Sono tecnicamente preparati e sensibili alle contaminazioni musicali. Questo fa ben sperare per il futuro del jazz in Italia, che vedo con entusiasmo e fiducia».
Lei ha suonato con musicisti di notevole spessore, persino con Enzo Avitabile. C’è un concerto che ricorda come particolarmente significativo?
«Ho avuto il privilegio di collaborare con artisti di calibro mondiale come Randy Brecker, Jerry Bergonzi, Phil Woods, Horacio “El Negro” Hernández, Edy Martinez e naturalmente Enzo Avitabile. Ogni esibizione ha avuto per me un valore speciale, indipendentemente dalle dimensioni del palco o dal numero di spettatori. Ho suonato davanti a platee di oltre diecimila persone così come in serate molto intime con pochi ascoltatori, ma in ogni occasione ho sempre messo lo stesso fervore della prima volta. Ogni concerto ha lasciato un segno profondo nel mio percorso artistico».
Da vari anni si dedica anche alla Terapia del Suono. Com’è nato questo interesse?
«Mi occupo della Terapia del Suono da tredici anni con Intentional Sounds, un progetto che ho fondato insieme a mia moglie Paola Suárez, anche lei sonoterapeuta. Questo interesse è nato da una mia esperienza personale durante un concerto a Copenaghen nel 2008, quando durante un solo ho vissuto uno stato alterato di coscienza. Quell’evento mi ha aperto una nuova prospettiva sul potere trasformativo del suono e della musica, che da allora approfondisco non esclusivamente nell’arte ma anche nella terapia, cercando di unire musica e benessere in modo concreto e consapevole».
Ritiene che la musica possa contribuire realmente al benessere della persona?
«Credo fermamente che la musica possa dare il proprio apporto al benessere della persona. Tuttavia, più che la musica in sé conta la coscienza di chi la crea e la interpreta. È il grado di consapevolezza, responsabilità e rispetto del musicista verso la musica e la vita che determina la forza trasformativa di questa meravigliosa arte. Quando un musicista vive con autenticità e onestà, il suo lavoro può davvero generare effetti positivi sull’equilibrio fisico e mentale di chi ascolta».













