Il Cinque Maggio del Manzoni

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Raccontano le cronache che il Manzoni fosse in giardino quando venne avvisato della morte di Napoleone all’isola di Sant’Elena e che scrisse in tre giorni, dal 18 al 20 luglio 1821, la grandissima lirica Il Cinque Maggio. Evidentemente la notizia giunse a lui, come a tanti altri, dopo oltre due mesi dalla morte dell’uomo che fu l’arbitro dei destini dell’Europa tra fine Settecento e inizi Ottocento. Un’ode divulgata ben presto in tutta Europa, tradotta in tedesco dal Goethe e in numerose altre lingue. Il Cinque Maggio è la rappresentazione epico-lirica della storia di Napoleone. Però la vita di questa grande personalità, con le sue glorie e le sue tragedie, per il Manzoni non è che un episodio dell’eterno divenire cristiano. Un’anima che Dio ha chiamato a un complesso e travaglioso destino, dalla grandezza terrena all’annullamento di questa, fino alla vera gloria, quella celeste. La figura di Napoleone assume un senso solo se inquadrata nel disegno divino e la grandiosa vicenda di quest’uomo, e il suo crollo, viene giustificata da un arcano piano provvidenziale.

Il poeta ricorda le campagne più famose di Napoleone: quella dell’Italia, quella d’Egitto, quella di Spagna, quella di Germania, quella di Russia. Si distacca, il Manzoni, da tutti coloro che lodarono servilmente l’Imperatore nello splendore del suo potere come da tutti coloro l’oltraggiarono con codardia quando cadde. Malgrado l’evocazione epica, doverosa per esaltare la grandezza del Bonaparte, il Manzoni si sofferma nella meditazione, chiedendosi se quella fu vera gloria, rispondente cioè in modo consapevole alla volontà divina. Questa immensa lirica ci fa comprendere la grandezza di Napoleone ma anche la sua miseria, solo nell’isola di Sant’Elena a ricordare il suo passato, una solitudine che si trasforma in un peso insopportabile. Un Napoleone che cerca di scrivere persino le sue memorie, per narrare ai posteri la propria vita, e sempre la mano ricade stanca, avvilita, su quelle pagine che avrebbero dovuto, nel suo pensiero, restare eterne.

Un uomo, Napoleone, che prima di sparire davanti alla morte ricorda le tende degli accampamenti rapidamente spostati dagli eserciti in marcia, le trincee nemiche abbattute dalle artiglierie, le baionette luccicanti nell’assalto. Ma è solo un’ultima sinfonia guerriera, perché ora l’uomo è solo, è perduto, è angosciato come il naufrago che si sente sommergere dalle onde. Tutta la gloria umana è vana, non gli serve più a nulla, è falsa. Il premio terreno, la celebrità, è deludente. Qual è allora il premio che conta? Il Paradiso. E come possiamo raggiungerlo? Attraverso la conversione. Napoleone s’inchina davanti alla croce (disonor del Golgota, la definisce il Manzoni). Stanco, lui che ebbe tutto e tutto provò (tutto ei provò), si rende conto che la vera grandezza sta solo nell’abbandonarsi al volere di Dio e morire tra le sue braccia. Un Dio, quello cristiano, che ha anch’Egli conosciuto la sofferenza e la morte, che non abbandona l’uomo, ma vive con lui la sua pena. L’ode si conclude dunque con una visione profondamente umana e insieme cristiana. Possiamo concludere che il Manzoni rimase sì colpito dalla morte di Napoleone, sinceramente folgorato dalla funerea notizia ma certamente commosso dal fatto che l’uomo (e non importa più se grande o piccolo) perì in modo cristiano.