È da diverso tempo, ormai, che Madre Natura riserva a chi vive di agricoltura annate sempre più imprevedibili e, talvolta, poco piacevoli. Basta voltarsi indietro di poco e pensare alle ultime due: la 2017 e 2018. Può sembrare una frase fatta, ma è vero che le stagioni non esistono più; perlomeno, non esiste più quell’alternarsi regolare di caldo e freddo tanto rassicurante quanto prevedibile dei cicli naturali.

In questa situazione, le viti subiscono molti stress, spesso amplificati da un suolo poco ospitale per la loro produzione. Anzi, probabilmente la causa di stress maggiore è costituita proprio da un terreno poco vitale, un ambiente che naturalmente non sarebbe favorevole alla coltivazione, ma nel quale si è piantato per ovvie ragioni economiche. Ed è proprio sul tema della fertilità che dovremmo soffermarci: ampliare la nostra conoscenza a tal riguardo ci aiuterebbe a capire meglio come bisogna comportarsi di fronte alle infinite variabili che Madre Natura ci pone per poter ricavare da essa i suoi frutti migliori.

Oltre, però, ad approfondire il concetto di fertilità da un punto di vista tecnico, bisognerebbe soffermarsi su quello della vitalità per non considerare la terra solo come un bilancio energetico.

Un suolo vivo non solo è capace di produrre, ma anche di mantenere nel tempo l’attitudine alla produzione. Per conoscere appieno la vitalità dei suoli dovremmo imparare ad essere innanzitutto i più grandi osservatori del nostro orticello: solo coltivando le nostre stesse osservazioni possiamo liberarci dalla convenzionalità ed attuare un’agricoltura del buonsenso.

Non basta, infatti, essere biologici convinti, utilizzare concimi puramente organici o certificati per non essere considerati convenzionali. Non voglio demonizzare chi sceglie un sistema di produzione convenzionale: le ragioni possono essere di varia natura e valide. Il problema sorge dal concetto stesso di convenzione, cioè di cosa applicata in maniera stereotipata, per una consuetudine cieca al ragionamento e all’osservazione che, purtroppo, a volte si traduce in danno per la produzione stessa.

Vedo sempre più vigneti che presentano problemi di carenze nutrizionali, scarsa o eccessiva vigoria. Spesso la soluzione che si applica è curare i sintomi, pensando così di risolvere il problema. Invece, è la prevenzione ad essere sempre l’arma migliore, non perché la cura non funzioni, ma perché essa risolve un problema momentaneo e non quello che è alla base.

Un esempio di ciò può essere un impianto non idoneo, mal gestito riguardo la regimazione delle acque superficiali e sotterranee. Basta già questo a rendere un terreno poco attivo. In questa situazione, infatti, tutte le componenti chimiche e biochimiche vengono rallentate da una scarsa disponibilità di ossigeno e sappiamo bene come quest’ultimo sia fonte vitale essenziale per le attività microbiologiche ed enzimatiche del suolo. È attraverso l’ossigeno che si mantiene attiva la sostanza organica che regola gli scambi degli elementi nel terreno. Nel momento in cui i pori del terreno vengono a chiudersi, possono venirsi a creare fenomeni di putrefazione con formazione di molecole quali il metano, l’idrogeno libero, solforato, fosforato e altri composti organici. Tutto ciò conduce ad un rallentamento della formazione di humus e, conseguentemente, a un aumento delle difficoltà per ottenere risultati produttivi soddisfacenti sia da punto di vista quantitativo che qualitativo.

La cattiva regimazione delle acque, oltre che ad una posizione naturalmente sfavorevole o un impianto mal gestito, è data anche dalla compattazione da erosione, dalle lavorazioni non in tempera (non eseguite con il giusto grado di umidità), o ripetuti passaggi di mezzi pesanti soprattutto quando il terreno è bagnato.

Ogni lavoro di integrazione organica intrapreso per curare i problemi dovuti a queste condizioni è uno sforzo per l’agricoltore che si trova a non ottenere i risultati sperati. Uno sforzo, spesso, non risolutivo.

Ciascun agricoltore dovrebbe essere il più grande studioso della propria terra: la conoscenza dovuta all’osservazione nel tempo di come questa reagisce alle diverse variabili ambientali è il primo grande strumento che egli ha a disposizione per contrastare l’imprevedibilità delle annate. Strumento essenziale anche per qualsiasi consulente che lo aiuta nella gestione della coltivazione.

L’enologo ha il compito di esaltare le caratteristiche del prodotto che la Natura gli dona, producendo qualcosa che non esisterebbe se non per mezzo del suo intervento.

Egli, però, dovrebbe essere consapevole che la parte più importante del suo lavoro si svolge nel campo; avviene dove nessun occhio può vedere: sottoterra, nelle radici, nelle foglie e nella linfa di quella meravigliosa pianta che è la vite.