Vivere intensamente la quotidianità di un luogo, in tutte le sue forme, respirare le sue specificità in ogni ambito, mi ha sostenuto nella volontà di trasmettere questa mia appartenenza e di renderla condivisibile con chiunque si senta legato alle origini della propria terra, non solo col cuore, ma con ogni sua cellula.

È quello che riesce a fare Bruno Di Ciaccio, Gaetano DOC classe 1950 e docente di matematica in pensione, che grazie alla sua passione per la cucina e alle storie delle tradizioni, è riuscito a pubblicare il suo terzo volume: Quinto Quarto e Ingegno. La Cucina della Roma papalina,edito da Cuzzolin Editore.

Dopo aver scritto della cucina tradizionale meridionale, La cucina di Gaeta(2015) e La cucina al tempo dei Borboni(2017), “Non potevo non essere tentato dal fare altrettanto nei confronti delle tradizioni gastronomiche della capitale, una città che ho sempre sentito particolarmente vicina, dove ho vissuto lunghi periodi della mia vita, della cui storia e cultura ho sempre subito il fascino” ha dichiarato Di Ciaccio.

“Non averlo ancora fatto iniziava a generarmi una sensazione di incompletezza, stavo ignorando i geni che dall’antichità si sono trasmessi in noi attraverso i nostri avi. Mancava un tassello importante nel mio personale mosaico e rischiavo oltretutto di trascurare una cucina che ho sempre visto come l’esaltazione della concretezza e dell’ingegno”. “Per esprimere questo sentimento- ha continuato a spiegare il professore- sarebbe stato riduttivo redigere un semplice e succinto elenco di ricette, si sarebbe persa la schiettezza e la sgargiante vitalità della cucina e della cultura romane. Si è preferito inquadrare il lavoro nel contesto più ampio della vita dell’epoca, calandosi nel clima di allora e cercando di farne rivivere il fascino, in una visione globale in cui le tecniche culinarie sono strettamente connesse con la storia e con le tradizioni di un

Popolo”.

Per le fonti, Di Ciaccio ha spiegato che ci si è attenuti agli scritti ed alle opere di storici ed esperti di gastronomia, da Apicio per l’antica Roma, ad autori più moderni come Mastro Martino e Bartolomeo Scappi, fino ai testi più recenti di Gioacchino Belli ed Ada Boni, solo per citarne alcuni. Molte altre informazioni scaturiscono dalle testimonianze di visitatori e cuochi dell’epoca e dalla naturale ed innata predisposizione del romano a “raccontare” le sue ricette, tanto da poterle

vedere.

“Nel selezionare le ricette e nell’ordine della loro presentazione mi sono fatto guidare dal gusto e dallo stile personale, tralasciando le preparazioni troppo sofisticate o troppo banali e dando rilievo a quelle che stanno dalla memoria ed a quelle che sembrano collegare al meglio la tradizione con un senso di modernità. Una scelta sicuramente non oggettiva, che probabilmente non vedrà tutti d’accordo; sarà comunque un piacere confrontarci”.

Le ricette sono state scritte in modo lineare e sostanziale, senza fronzoli.

L’impostazione fotografica è stata volutamente semplice ed essenziale per dare alle immagini una impronta casalinga, adeguata all’universo sobrio e spontaneo della cucina romana.

Si è dato ampio spazio a rilevanti espressioni della letteratura e della cultura, nei casi in cui sono stati fatti significativi riferimenti alla tradizione culinaria locale.

Per non limitare la competenza della cucina romana alla sola capitale, il professore ha deciso di trattare ampiamente anche delle pietanze tipiche delle regioni limitrofe, in particolare di quelle che appartennero allo Stato Pontificio, che tanta influenza hanno avuto nella formazione della cucina capitolina; una selezione che non ha la presunzione di essere completa, ma che permette sicuramente di dare risalto alla ricchezza ed alla copiosità delle tradizioni gastronomiche dei luoghi.