Pasquale Maffeo

Il letterato Franco Trifuoggi ci dona una sua recensione letteraria sull’opera recente dello scrittore di fama nazionale Pasquale Maffeo “La Bilancia che pesa l’uomo”, sottotitolo Dialoghi su verità della storia, Edizioni Controluce. Afferma Trifuoggi: “Anglista, narratore, poeta originale, autore di una ventina di opere teatrali ispirate dalla fede cristiana, pluripremiato (insignito, tra l’altro, del “Capri San Michele” nel 2007), Pasquale Maffeo offre, con questo agile testo intitolato La bilancia che pesa l’uomo (Edizioni Controluce, Monte Compatri,) un’ulteriore prova della fecondità e validità della sua vena drammaturgica. In esso, che reca significativamente in esergo una sentenza di Erasmo da Rotterdam sulla folle inutilità dell’ “attaccar briga”, ripercorre il suo itinerario di critica alla insufficienza di umanità che ha  sempre accompagnato la collettività lungo i secoli. È una lucida, implacabile requisitoria, scandita da una serie di dialoghi, contro tutti i responsabili dei crimini e dei mali del mondo, che muove non senza ragione dal famoso brocardo dei Romani Si vis pacem para bellum, che richiama alla mia mente la sua antitesi proclamata dal filosofo calabrese della pace Domenico Antonio Cardone (del quale è stato recentemente pubblicato postumo il Diario) Si vis pacem para pacem.

I colpi dell’Accusatore, protagonista dei dialoghi, investono via via i vari “carnefici”, inchiodandoli alle loro responsabilità, con argomentazioni forti quanto ineccepibili. Ed ecco manifestarsi, in un serrato dialogo, sul banco degli accusati le loro varie Voci: quella di un “tedesco provveditore di acciaio bellico per la prima guerra mondiale”, del quale non rimarrà memoria; quella dei costruttori di automobili e camion per il trasporto di uomini e materiali destinati al fronte, che riconoscono che per loro la guerra fu “una vera manna”. A loro l’Accusatore contesta che almeno avrebbero dovuto investire il capitale lucrato sulla carneficina offrendo a maestranze e operai azioni di compartecipazione. A un altro signore della guerra, padrone, con due fratelli, di una fabbrica di armi, chiede se i loro figli abbiano sempre goduto di buona salute, al che l’interlocutore risponde confessando che il figlio venticinquenne, respirando vapori acidi nel gabinetto delle miscelazioni, si ammalò e si spense di leucemia, provocando, due mesi dopo, la morte di crepacuore della madre.

Deve quindi riconoscere che la guerra porta male anche a coloro che concorrono a prepararla, a fomentarla, a farla durare, anche se dichiara che i loro eredi persistono nella fabbricazione di armi e munizioni, dato il perenne divampare di guerre nel mondo. Nella vigorosa e articolata reprimenda dell’Accusatore vengono, successivamente, coinvolti i fabbricanti di pneumatici, gli allevatori e venditori di muli all’esercito. Accennando alle disumane crudeltà che la guerra comporta, la Voce esclama: “Guai all’alpino che avrebbe visto atterrare da una pallottola il suo mulo! Fosse morto un uomo, non sarebbe stata una perdita per la nazione”. E l’Accusatore commenta amaramente: “Sarebbe stato rimpiazzato da un commilitone dalla penna nera esposto alla medesima sorte. La guerra, già, una strage di adulti innocenti”. Preludio alla convocazione di Enrico Fermi è poi un’esemplificazione storica positiva, quella del genio universale, Leonardo, che non rivelò mai ad alcuno dei Prìncipi che conducevano campagne di guerra l’invenzione di una micidiale macchina d’assalto atta a produrre il totale sfacelo del nemico.

A Fermi, insignito del Nobel per la fisica nucleare nel 1938, e ai Ragazzi di via Panisperna, l’Accusatore imputa il brevetto n.ro 324458, embrione di mala scienza che partorì negli Stati Uniti proliferazioni atomiche responsabili di immani disastri, che vengono rievocati con un impressionante crescendo di realismo e di orrore. E gli chiede di dichiarare quanto pesa nella sua bilancia il valore di una vita umana. “Non ha peso” è la cinica risposta. “È come un albero, una casa, una baracca. Non c’è differenza tra loro”. Sotto il peso della gravi contestazioni dell’Accusatore, che accusa lui e gli altri tre scienziati a cui era stato affidato il progetto Manhattan (Oppenheimer, Lawrence e Compton) di aver forzato la mano ai responsabili perché la bomba atomica fosse usata contro il Giappone senza preavviso e in due luoghi diversi, crollano le fragili impalcature difensive e i luoghi comuni o i balbettii pretestuosi delle varie Voci. Solo l’ultimo interlocutore, Albert Einstein, pronuncia parole edificanti, ricordando di aver predicato, con Albert Schweitzer e Bertrand Russel, il divieto di test e sperimentazioni atomiche, di essersi opposto, nell’estate del 1945, al bombardamento del Giappone, di avere poi proposto il disarmo nucleare, di avere sempre sentito viva “la figura di Gesù”, di non aver mai indossato una divisa, e affermando che conta la famiglia, contano i figli, conta l’amore per la donna. Risplende, così, la luce abbagliante di verità che dissipa le tenebre di un malcostume alieno da ogni preoccupazione etica. Donde l’approdo conclusivo dell’Accusatore alla serenità nell’ascoltare la lezione redentiva di un sapiente della terra, di un giusto che annunzia primario il rispetto della vita, a prescindere dal colore della pelle, dalla fede religiosa, dalla lingua.

Parole drammaticamente attuali, che configurano un kèrigma irenico e umanitario vigoroso e perentorio, rivolto soprattutto agli scienziati, ai reggitori di popoli, ai potenti della terra. Un testo, dunque, il cui tono profetico con l’altissima tensione apocalittica della scrittura richiama quello che Raffaele Bussi, uno dei più acuti esegeti dell’autore di Prete Salvatico, considera il messaggio finale di Pasquale Maffeo (riportato nel risvolto di copertina): “E l’umanità? Per rinsavire, bisogna che subito prenda coscienza dei propri mali. Per sanare i mali, bisogna che subito converta in ordine i disordini, smetta le offese e le dissipazioni, accetti il peso delle giornate, faccia nascere il bene dal dolore, o l’ingovernabile fiume romperà gli argini e coprirà la terra dei vivi e la memoria dei morti.