Gli uomini di mare lo sanno, quelli che navigano di notte ancora di più: dare sempre spazio sufficiente a una petroliera per continuare ad andare dritta nella sua rotta! Parola di marinaio, nell’oscurità le luci di una petroliera sono talmente distanti da sembrare quelle di due navi che procedono in colonna e allora trovarsela a meno di un miglio fa paura. Questi bestioni sono difficili da manovrare, basti pensare che per rallentare una petroliera che viaggia a 16 nodi bisogna cominciare tre miglia prima. Enormi navi di freddo acciaio con tonnellate di carico che viaggiano sotto il mare. Ciò che conta, il petrolio, sta sotto il pelo dell’acqua, perché, per le leggi dell’idrodinamica, il carico richiede meno potenza per essere trasportato.
Il lavoro su una petroliera è sfibrante. Un equipaggio diviso in tre turni: quattro ore di guardia e otto di riposo, a rotazione. Per ogni uomo di servizio ve n’è uno che dorme e un altro in coperta o in cabina ad aspettare. Naviganti spesso taciturni che con tempra sopportano il ritmo lento e ipnotico di micromondi chiusi dentro i confini di un bastimento. Dagli ufficiali ai mozzi, passi avanti e indietro, dieci passi avanti e dieci indietro, chilometri e chilometri sul ponte e senza andare in nessun luogo. Gli uomini non sbarcano quasi mai poiché appena arrivano in porto si scarica in ventiquattro ore, poi ve ne sono altre sei per imbarcare zavorra e ripartire. Subito, perché una petroliera ferma e vuota non serve. Svuotata è pericolosa, assai più di quanto non sia se è piena. Una petroliera vuota è come una bomba, i residui di petrolio evaporano, diventano gas e basta un niente per farli esplodere. Anche per via di un getto d’acqua durante il lavaggio delle taniche, i grossi serbatoi che contengono il carburante greggio. I getti d’acqua bollente possono caricarsi di parecchie migliaia di volt di elettricità statica: una scintilla e addio petroliera.
Guardare una petroliera avvolta dalle fiamme produce una visione apocalittica. Lingue di fuoco, l’urlo dei disperati cacciati dalle vampate verso il mare. Una scena simile fu vissuta al porto di Gaeta, nel 1961.
5 giugno 1961
La petroliera francese Hylaire Fouquet è capitanata dal marsigliese Yves Gallen. La mattina l’ufficiale dà l’ordine di carico di benzina e gasolio dal molo oleodotto della raffineria Getty Oil Italiana. La Hylaire Fourquet è una nave-cisterna di appena tremila tonnellate ma efficiente e con un equipaggio composto da ventidue uomini. Il capitano ha trentacinque anni, faccia dura e determinata. Spera un giorno di comandarne una più grande, magari proprio come quella che vede all’altro lato del molo, una turbonave di oltre trentamila tonnellate. Chi, più di un uomo di mare, è abituato ad aspettare nel silenzio? Certo, ci sono petroliere di oltre centomila tonnellate, veri colossi in grado di affrontare terribili tempeste, ma andrebbe bene anche quella che si vede all’altro capo del molo, pensa Yves Gallen.
Stivaletti neri e maglia scura, sguardo sicuro che rivela grande forza di volontà. Il comandante, sotto un tiepido sole di fine primavera, attende che le operazioni, cominciate nella mattinata, abbino fine. Ma qualcosa va storto. Alle 13.30, per la probabile rottura di una manichetta, si sviluppa un incendio terribile. Un lampo bluastro zigzaga tra le varie strumentazioni mentre il mare prende a luccicare. Rogo e fumo, poi un boato! Uno scoppio nella parte poppiera del cargo. Sembra il giorno del diavolo. Una furiosa esplosione che fa oscillare la nave come una culla. Delle volte nell’aria ci sono rumori e colori che lasciano presagire una catastrofe, quella sottile sospensione che sempre precede i fatali accadimenti. Ma quella mattina tutto accadde all’improvviso. Sarebbe stata una tragedia senza il coraggio e il pronto spirito degli uomini del porto di Gaeta. Immediatamente intervengono i mezzi di emergenza della raffineria e partono i rimorchiatori dalla banchina, che riescono a domare e a circoscrivere l’incendio. Due ore di combattimento contro le spade di fuoco, che salgono trascinandosi dietro comete di faville. Due ore di estenuante lotta per salvare vite umane.
Tra cielo e mare, vapore caldo. Tra cielo e mare, sirene azionate dai timonieri dei rimorchiatori. I gabbiani garrivano assordanti, sbatacchiando le ali.
La pira attira l’attenzione degli abitanti del rione prossimo al molo, che, visibilmente spaventati, abbandonano le case. Gli uomini di bordo cercano scampo a nuoto mentre grosse fiammate avvolgono tutta la parte posteriore della nave. Anche lo specchio di mare antistante diventa color fuliggine. La deflagrazione danneggia la sala macchine e a riportare i danni più gravi sono Alan Dumet, secondo capo macchinista, e Paul Ferare, secondo ufficiale di macchina. Verranno ricoverati alla Casa del Sole di Formia per ustioni di primo grado agli arti superiori, al collo e al dorso. Il capitano Gallen, raggelato ma non tremante, sarà l’ultimo ad abbandonare la sua petroliera mentre il rossastro delle fiamme veniva smorzato dalle pompe idriche.
Rimbaud definiva i poeti come ladri di fuoco. In fondo, a loro modo, poeti lo furono anche i marinai gaetani accorsi per rubare le fiamme della petroliera Hylaire Fouquet e salvarne l’equipaggio.













