La discoteca Seven Up di Formia: tra sogno e incubo “‘Noi volevamo solo trascorrere un carnevale diverso, siamo entrati lì per curiosità. Non ne siamo usciti più per cinque anni, la nostra vita è stata plasmata da quella discoteca’. Nel Seven Up di Formia quella notte dell’inaugurazione del 1980, nessuno riuscì a parlare per l’ora seguente, tutti raccontano di aver avuto il fiato spezzato dallo sgomento e la bocca impastata per lo spavento terribile, davanti alle scenografie elettroniche più grandi di quelle costruite in altre discoteche fino a quella notte. La testa ti girava, perché non riuscivi a staccare gli occhi dai laser che illuminavano il cielo fino a parecchie miglia nautiche nelle acque del Golfo di Gaeta”. A raccontarcelo è Salvatore Minieri, che alla discoteca formiana ha dedicato studio e ricerca, confluito nel volume “Pascià, il clan dei Casalesi è nato in una discoteca”. Lo intervistiamo per Golfo e dintorni nel tragico anniversario della esplosione che, nell’agosto del 1985, chiuse nella maniera più fosca un capitolo della storia del nostro territorio. 

L’esterno della discoteca Seven Up

Non era una discoteca comune. Vero? No, non era un posto come gli altri. Da nessuna altra parte avresti ballato tra scintillanti torri metalliche di trenta metri con robot d’argento che ti indicavano la via verso l’alba. In nessun posto al mondo ti avrebbero fatto stare su piste d’acqua e piante esotiche, mentre enormi ragni d’acciaio tagliavano in due il fumo sintetico con luci ed effetti così grandiosi da farti perdere il senso del “fuori”. Perché fuori, una volta entrati nel Seven Up di Formia, non c’era più nulla, la realtà era tutta dentro quel castello di decibel e bellezza. Una cittadella che, all’apertura dei tornelli, inghiottiva le seimila persone assiepate per ore davanti agli oblò verdi. Già, quelle finestre specchiate che guardavano la campagna di Gianola, fino a qualche mese prima, abitata solo da chi quei terreni li coltivava nel silenzio che può avvolgere una anonima e nascosta collina tra vigneti e mare”. 

Locandina storica

Non era solo una discoteca. Era un magnete per giovani. Da quel febbraio ’80, campi coltivati e zone piene di serre ordinatamente allineate, rimasero coperti ogni fine settimana per quei sessanta mesi di attività del Seven Up, da tendopoli improvvisate. Tende da campo, sì, cambuse e, qualche volta, grandi gazebo per assicurarsi il pasto, perché lì si arrivava già il giovedì pomeriggio e si rimaneva a ballare fino all’alba del lunedì. Quelle piccole tendopoli, servivano ai ragazzi per restare di fianco alla megadiscoteca giorni interi, per non perdersi un solo battito di quella musica, di quello spettacolo unico in Europa. La file per entrare in quel mastodonte sdraiato ai piedi della collina tra Formia e Scauri, iniziavano già alle quattro del pomeriggio, era quella la vera rivoluzione: l’orario praticamente continuato. Il primo esempio di democratizzazione dello spettacolo. E non era per ragioni di prestigio o per sterili proiezioni commerciali. No, il Seven Up aveva bisogno di rimanere aperto giorno e notte per fare entrare tutti quelli che dormivano in auto e in quelle tende nei parcheggi della discoteca, pur di assicurarsi un posto nel sogno. 

Parliamo di un unicum europeo, di un gioiello. Era un sogno elettrico e metallico, ma soprattutto, l’unico posto d’Europa che metteva fianco a fianco ogni categoria, ogni età, l’estrazione sociale qui contava quanto quelle inutili campagne ammuffite rimaste fuori. Arrivarono le critiche, quelle non mancano mai quando si costruisce in nove mesi uno dei posti per lo spettacolo che surclassava di gran lunga persino lo Studio 54. La discoteca newyorkese, al confronto del Seven Up, sembrava un anonimo hangar sulla cinquantaquattresima strada che, al massimo, sapeva di glitter umido e champagne con l’etichetta contraffatta. Qui no, qui c’era un raffinato ristorante all’interno (Le Pacha, un locale preesistente che il Seven Up inglobò nella sua parte nord), trasformato in bar lounge, quando nemmeno si sapeva cosa fosse il lounge, altri tre grandi punti di ristoro erano piazzati negli angoli della platea esterna e nella torre del corpo coperto del Seven Up. Nulla, nemmeno i colori dell’arredo nei bagni, era lasciato al caso. Ti ci perdevi all’interno, come succedeva quasi ogni sera e solo gente esperta sapeva muoversi in quella fortezza luminosa. I responsabili furono costretti ad assumere degli stewart per segnalare  chi entrava quale direzione prendere, per non rimanere smarriti negli enormi spazi pieni di manichini meccanici e luci. Un delirio. Velluto rosso, lustrini, divani sgargianti e gli effetti scenici più belli d’Europa erano solo il preludio all’allucinazione visiva e sensoriale che si viveva nella parte esterna della discoteca. Talmente importante la riuscita di quegli spettacoli, da spingere la società che aveva creato quella meraviglia, la Maurice srl, a chiamare come direttore artistico non un semplice dj, ma un regista e produttore, Aldo Pomilia, un nome che sa ancora di spettacoli strepitosi e serate che somigliavano sempre più a set cinematografici con effetti e comparse. Decine di comparse, come nel pieno di una serata a Cinecittà.

Il cinque settembre 1981 il Seven Up prese il volo con la finale di Miss Italia (la prima volta in una megadiscoteca), vinta da Patrizia Nanetti. La vincitrice superò di molti voti Moana Pozzi che si era piazzata nella finale di Gianola grazie alla fascia di Miss Cinema Roma. Furono anni sensazionali, cinque estati di assoluto successo che, la tragica esplosione del tre agosto 1985, riuscì a distruggere nelle scenografie e negli enormi palcoscenici piazzati all’esterno, ma mai nei ricordi di quella che non è mai stata veramente una discoteca. Il Seven Up è stato tutto ciò che andava oltre. Nessuno aveva mai pensato a un  progetto del genere in Europa. Nessuno si era lontanamente accostato a un investimento tanto grande, quanto pericoloso per costruire un sogno di lustrini, robot e laser. Nessuno, oggi, può far a meno di guardare i ruderi del Seven Up, di ciò che resta di quell’epopea che aprì fragorosamente i cancelli degli anni ’80. Sotto quei grandi muri abbandonati da trent’anni e le vecchie gabbie di fari che illuminavano gli enormi spazi pieni di gente accorsa lì da mezza Italia, resta sepolto un sogno. Troppo grande per essere contenuto persino nella più grande discoteca d’Europa