Effige raffigurante Papa Urbano VI

Pochi sanno che Urbano VI, il papa del “Grande Scisma d’Occidente”, è nativo di Itri. Lo sostengono gli storici Giovanni Villani, Dietrich von Niem, il conciliarista tedesco che fu il segretario dello stesso Urbano VI, Pietro Giannone, Giovanni Bernardino Tafuri, Pietro Pompilio Rodotà, Odorico Rinaldi, Bruto Amante.

Itri ha sempre ignorato Bartolomeo Prignano (questo era il suo nome secolare) lasciandosi scappare

una grossa occasione per onorarlo. Mai nel caratteristico centro aurunco la sua figura è stata ricordata con alcuna celebrazione in forma pubblica o proivata, che, oltre a far conoscere un periodo suggestivo ed emozionante, avrebbe potuto rappresentare per la cittadina collinare un richiamo turistico e culturale di notevole importanza.

Il Prignano ricopriva la dignità vescovile a Bari ed era reggente della Cancelleria, quando l’8 aprile del 1378 venne scelto quasi unanimamente (solo l’Orsini non lo votò) coma papa, un anno dopo che la sede pontificia era tornata da Avignone a Roma, la sua sede naturale, grazie all’incalzante, pervicace azione di persuasione della santa domenicana del Terz’Ordine Regolare delle cosiddette Mantellate, Caterina da Siena, dopo settantacinque anni di permanenza nella città in riva al Rodano. Egli, vicecancelliere della Chiesa, una delle personalità più eminenti di tutta la curia papale, fu scelto perché era estraneo al Sacro Collegio, per nulla vincolato alle correnti e alle consorterie esistenti presso la curia apostolica, di cui conosceva bene tutti gli ingranaggi, e perché era suddito degli Angioini. Quindi l’insigne canonista, figura notevole nella curia di Avignone, amministrata in maniera esemplare, poteva essere accetto sia ai Francesi che agli Italiani, incapaci di accordarsi su alcun candidato, che doveva ottenere undici voti.

Inoltre il venerabile e notissimo arcivescovo, l’ultimo pontefice scelto al di fuori del collegio dei cardinali, per i suoi costumi integerrimi e per la sua soda pietà, godeva negli ambienti della curia avignonese, avendovi vissuto 14 anni, stima e rispetto.

Urbano VI fu consacrato Vicario di Cristo il giorno di Pasqua, 18 aprile 1378, con pompa solenne, alla presenza di tutto il Sacro Collegio. Egli fu incoronato nel vasto tempio di S. Giovanni in Laterano dal cardinale Giacomo Orsini (proprio colui che non lo aveva votato), Arcidiacono di Santa Romana Chiesa, al cospetto di tutta Roma. I cardinali dissero che la scelta era stata completamente libera, esente da ogni violenza. Etra stata soltanto opera dello Spirito Santo. Egli fu poi riconosciuto da tutti i principi d’Europa e dall’intera cristianità. I sovrani europei

, tutti indistintamente, non mancarono di spedire a Papa Urbano lettere di congratulazioni e di profonda riverenza. La regina di Napoli, Giovanna d’Angiò, donna dai quattro mariti e dai numerosi amanti, un miscugli

Lo stemma pontificio di Urbano VI

o di religiosità e di machiavellismo ante litteram, ordinò feste e gale in onore del nuovo capo della Chiesa.

Bel presto, però, il pontefice si alienò le simpatie dei cardinali per la sua vita morigerata, da francescano, e per il suo rigore contro gli innumerevoli abusi del clero procedendo rapidamente e con ardore, imitando Gregorio VII e Innocenzo III, ad una capillare riforma della Chiesa, di cui la cristianità già da tempo aveva bisogno,  senza mezzi termini. Inoltre il Prignano, per ricondurre la stessa  sulla retta via dello spirito, secondo i dettami dell’apostolo Pietro, dichiarò con fermezza guerra alla simonìa (vi erano prelati che avevano perfino trecento benefici ecclesiastici), una “crociata” supportata dalle furibonde prediche di Santa Caterina da Siena e riassunta bene da un’arrogante e rivoluzionaria frase buttata in faccia ai riluttanti cardinali: “Io posso tutto. E voglio che sia così”. Egli, pio e di condotta irreprensibile, animato dai più alti propositi, intendeva cominciare la trasformazione della Chiesa proprio dai cardinali, i cui costumi erano molto rilassati. Quando Caterina da Siena giunse ad Avignone per far tornare il pontefice a Roma, poté vedere come i cardinali se la spassavano, non sentendo freno né dalla dignità ecclesiastoica né dalla coscienza religiosa. Così ella li descrisse: “Essi stanno come ribaldi e barattieri. Hanno preso per mensa loro le taverne, sono fatti animali per i loro difetti e stanno in atti, in fatti e in parole lascivamente. Questi demoni incarnati, dei beni della Chiesa adornano le diavole sua”, ossia le dame di corte, le cognate, le nipoti, le amiche e le amanti dei cardinali. I prelati sfoggiavano lussuosi vestiti, fatti di broccato veneziano e di seta di Damasco, e sfarzosi  equipaggiamenti, provenienti, essi, da grandi famiglie nobili, che non volevano rinunciare alla loro comoda e poco edificante vita avignonese, fatta di mollezze e di lusso, stigmatizzata da Brigitta Persson, la futura Santa Brigida di Svezia, e da Francesco Petrarca nei sonetti CXXXVI (Avignone era “Nido di tradimenti), CXXXVII, CXXXVIII (la città bagnata dal Rodano è “Fontana di dolore, Albergo d’ira / Scola d’errori e templo d’eresia”) de “Il Canzoniere”. Per il suo carattere impetuoso e per il suo zelo imprudente, l’austero ed intransigente Prignano, che voleva porre rimedio alla degenerazione dei costumi e alla mala pianta della simonìa, che aveva invaso il mistico ed ubertoso campo della Chiesa, si attirò l’avversione della maggior parte del Sacro Collegio, che, poco amante dei dettami evangelici, abituato da lungo tempo ad una politica autonoma, viveva all’ombra dei dorati palagi della sibaritica Avignone, alla stregua dei principii laici, tollerato dal predecessore del novello pontefice. Rigido ed austero con sè, fu rigido ed austero con gli altri, senza timori reverenziali verso alcuno. Inoltre Urbano voleva che i porporati abbandonassero l’immensa turba dei familiari (ognuno di loro non si sposta che con una scorta di almeno sedici persone, mentre per il cardinale di Pietramala bisogna parlare addirittura di quarantadue persone) e dei cavalli e che tutte le spese, per mantenere così gran lusso, tanto dannoso alla Chiesa, servissero ad aiutare i poverelli e per restaurare le cadenti basiliche e chiese. Insomma egli voleva che si tornasse alla primitiva semplicità del costume cristiano. Giuste rampogne, in sè, indizio di animo rigoroso, ma impolitiche in quel delicatissimo momento di trapasso della sede papale.

Tutto ciò indusse i porporati transalpini, che non potevano, come già ad Avignone, spadroneggiare, a ribellarsi  all’autorità papale, contestando la validità dell’elezione e sostenendo, nel manifesto del 9 agosto 1378, ad Anagni, dove si era trasferita la curia, che essa era avvenuta “non liberamente ma per paura”, strappata loro con la violenza, sotto l’incubo del popolo romano in tumulto, quindi nulla. Essi

erano aizzati dal vescovo di Amiens, Jean de la Grange, la mente della congiuta antipapale, diplomatico senza scrupoli al servizio di Carlo V, fuggito da Roma portando con sè i gioielli e la corona del tesoro pontificio.

Una giustificazione tardiva l’impugnazione, un vero e proprio pretesto il condizionamento nella scelta. Il “ripudio” era avvenuto sì per motivazioni personalistiche, ma soprattutto per interessi nazionalistici, volendo i cardinali francesi trasferire di nuovo la Curia ad Avignone (il ritorno della sede pontificia a Roma aveva causato una diminuizione della loro influenza), mentre il papa “non guardava che agli interessi della Chiesa”. Le obiezioni sulla validità dell’elezione furono confutate, con opuscoli che ebbero larga eco, dai più rinomati giureconsulti di quel tempo, quali Giovanni da Legnano nel trattato “De fletu Ecclesiae”, Baldo degli Ubaldi, allora professore a Perugia,  Giacomo di Sera, dottore bolognese, Giovanni da Spoleto, Tommaso d’Acerno e Bartoilomeo da Saliceto, il “princeps” dei giuristi, che, su istanza del cardinale Giacomo Orsini, nel “Consilium pro Urbano VI” sostenne, con solide argomentazioni giuridiche, l’assoluta, incontrovertibile legittimità del pontefice italiano, essendo stata l’elezione conforme alle disposizioni canoniche in materia e mancante di ogni forma di coercizione rivolta dai romani ai cardinali riuniti in conclave, incapaci di trovare un accordob su uno di loro, nella lotta tra la fazione limosina e quella dei francesi. Il nome dei suddetti giuristi costituiva già di per sè una garanzia d’imparzialità per l’elevata fama che già allora li circondava.

Il cancelliere fiorentino Coluccio Salutati con grande fermezza, nella lettera del 20 agosto 1397, dice che lo scisma rimarràn il più grande dolore della sua vita. L’umanista di Stignano smonta il mito della “electio per metum” di Urbanoi VI e formula un giudizio dei più severi sulla condotta dei cardinali nel 1378. Il Salutati, scrivendo al cardinale di Firenze, afferma che era ozioso perfino porre il problema, dato che la legittimità di Urbano VI, a suo parere, non poteva essere messa in dubbio. Lo stesso riformatore religioso inglese John Wyclif, spesso considerato il precursore della Riforma protestante, esaltava i meriti di Urbano VI, l’uomo evangelico, che svelava i crimini dei suoi predecessori e il libertinaggio dei cardinali, pontefice che avrebbe riformato la Chiesa. Il suo “De Ecclesia” è un elogio sperticato di Urbano VI. Anche Gregorio XII, al secolo Angelo Correr, era persuaso della legittimità del Prignano, affermata, ancora una volta, nel giugno del 1409, a Cividale del Friuli, la “Forum Julii” di Giulio Cesare. Pietro IV, re d’Aragona, scriveva ad Urbano in questi termini: “Successore di Pietro per la clemenza di Cristo, nostro Signore, voi siete veramente, non il candelabro messo sotto il moggio, ma quello che un miracolo ha collocato sulla cima del monte”.

Il 20 settembre del 1378 i prelati ribelli, ottenuta la protezione della regina di Napoli, Giovanna I, dalla vita poco edificante, che turbò enormemente il cuore del pontefice, definita dal Prignano “novella Atalia per la sua atrocità, novella Gezabele, traboccante d’empietà”, e del potente conte Onorato Caetani, acerrimo nemico del Prignano, asservito ai ribelli, indissero un nuovo conclave eleggendo a pontefice ed incoronandolo solennemente, il 31 ottobre dello stesso anno, nella chiesa di S. Pietro Apostolo di Fondi, cittadina che si trovava in una zona d’influenza di Napoli, il guercio da un occhio e zoppo Roberto di Ginevra, di famiglia comitale, imparentata con le principali famiglie regnanti d’Europa, cugino del re di Francia Carlo V, uomo d’armi più che di Chiesa, che prese il nome di Clemente VII, di triste fama, a motivo della sua spietata crudeltà, con la quale egli, come legato pontificio, aveva repressa la rivolta di Cesena. Nell’ “eccidio di Cesena”, nel febbraio del 1377, il cardinale fece massacrare i ribelli allo Stato della Chiesa. Ci furono quattromila morti e non vennero risparmiati neppure i bambini e le donne. I contemporanei condannarono duramente “il mostruoso crimine” di cui il prelato si era macchiato, che aveva fatto inorridire tutta l’Italia.

Effige raffigurante Papa Urbano VI

Questi i sistemi di Roberto di Ginevra, distruttore cosciente dell’unità cristiana: “Non clemens, sed pene demens”, ovvero “Non clemente, ma quasi demente”, a detta di Walsingham, meritevole, assieme a Giovanna d’Angiò, secondo l’anonimo fiorentino, autore del “Diario”, di essere arso, essendone ben degno. Amen!

Lo stesso personaggio aveva ritenuto valida l’elezione di Urbano VI ( in un documento scritto di suo pugno si può leggere che l’elezione era avvenuta “secundum ritum et unanimiter”), porgendogli riverenza e regalandogli un anello d’oro. Roberto di Ginevra aveva personalmente dato comunicazione dell’elezione di Urbano  al soglio pontificio all’imperatore del Sacro Romano Impero, Carlo IV (“Noi abboiamo eletto canonicamente Urbano VI”), in una lettera scritta, il 14 aprile 1378, al re dui Francia, Carlo V, e al re d’Inghilterra, Riccardo II, annunziando la spontanea elezione di Bartolomeo Prignano a sommo Gerarca della Chiesa, a cui chiese il vescovado di Ostia.

L’elezione di Clemente VII  costituì un’orrenda iattura, il periodo più funesto, più buio della storia della Chiesa, scandalosamente divisa, disarticolata,bicefala, che lacerò nel vero senso della parola la “tunica senza cuciture” del Cristo per ben 39 anni, provocando un durissimo colpo all’unità della Chiesa, il cui prestigio si era enormemente indebolito. Lo scisma, con orribili turbolenze, penetrava perfino all’interno degli Ordini religiosi, particolarmente tra i Francescani e i Domenoicani. I due papi guerreggiarono tra di loro  e si scomunicarono reciprocamente, in maniera che nominalmente tutta la Cristianità si trovava scomunicata, cercando partigiani per le rispettive fazioni (le loro “obbedienze” si formarono in funzione delle parentele e dei rapporti familiari). Alla fine, le milizie del legittimo Vicario di Gesù Cristo, sotto il comando di Alberico da Barbiano, patrizio romagnolo e signore di alcune trerre delle Romagne, che già era in gran fama. acclamato dai principi e dai popoli con il nome di “liberatore”, sconfissero gli scismatici: dapprima presso Carpineto, il 5 febbraio 1379, poi a Marino (30 aprile 1379), nella zona dei Castelli Romani, “un episodio di lotta nazionale”. Nel secondo, rude combattimento, i bretoni, capitanati dal conte di Montjoie, nipote dell’antipapa, che cadde nelle mani dei partigiani di Urbano, persero cinquemila uomini. Il 27 aprile gli urbanisti avevano occupato, dopo un lungo e penosissimo assedio, Castel Sant’Angelo, di obbedienza clementina, in cui Pierre Gandelin e Pierre Rostaing, molto gelosi dell’onore francese, facevano una grande resistenza ai partigiani di Urbano VI crivellando la Città Eterna di proiettili. Le due vittorie e l’occupazione del castello, capitolato per fame, nonostante Clemente VII avesse prodigato ai suoi difensori aiuti spuirituali e materiali, consegnarono, in maniera definitiva, Roma nelle mani di Urbano VI, che lo festeggiò in maniera solenne creandolo cavaliere e donando al condottiero di Santa Chiesa un grande stendardo, sul quale era impresso, a lettere d’oro, una croce rossa con il motto: “L’Italia liberata dai barbari”. Urbano VI andò in Vaticano in processione solenne, a piedi nudi, tra le pozzanghere, lodato da S. Caterina da Siena, una donna che rifulse nelle tenebre di quell’età e che fu il “braccio destro” del pontefice, adoperandosi per la soluzione dello scisma. La mistica sublime, una delle maggiori figure femminili della storia ecclesiastica, la futura santa e patrona d’Italia con S. Francesco d’Assisi, sostenne con risolutezza la legittimità di Urbano VI, eletto per ispirazione divina, bollando, con parole di fuoco, la condotta dei cardinali “ultramontani”, stolti, menzogneri, idolatri, che avevano seminato il veleno dell’eresia nella Chiesa, non esitando perfino ad additarli come “dimoni incarnati”, diavoli in sembianze umane.