Federico Quagliuolo sul sito Storie di Napoli ci regala la storia del wafer denominato Napolitaner che vale la pena raccontare, un passo indietro: dall’antica Grecia al Nord Europa, tremila anni di storia.

Il wafer, nelle sue numerosissime varianti e nella sua tipica forma “a nido d’ape” sulla cialda, è figlio di una ricetta dolciaria estremamente diffusa in tutti i paesi del nord Europa: dal Gaufre belga (gaufre significa nido d’ape!) al Waffel tedesco, passando per i Pancake inglesi, con questi ultimi che sono la versione più fedele di una antica ricetta greca realizzata con ingredienti semplici e di facile reperibilità: farina, olio, miele e, eventualmente, formaggio. Il nome dei primitivi dolci era “teganites” e ne parlò Cratino, uno dei più importanti commediografi ateniesi del V secolo a.C.

Facile che questa ricetta sia stata rubata dai romani e trasformata e negli “Alita Dolcia“, dolci tondi preparati con farina, uova, olio, miele, frutti di bosco ed altri sciroppi dolci ancora oggi in uso.

Nel medioevo, poi, si moltiplicarono le forme e le evoluzioni di questa ricetta primitiva, con le ricette biscottate che diventarono wafer in Francia e, nell’area belga, la più morbida gaufre.
Anche in Abruzzo e nel Lazio c’è una testimonianza -l’unica italiana- di questa versione a nido d’ape di questa ricetta antichissima ed è la “ferratella“, un dolce tipico abruzzese dall’aspetto identico alla gaufre, ma dalla consistenza più vicina al biscotto.
Nell’intera Europa, infatti, parte nel XIII secolo la scuola dei “cialdonai”, che erano proprio i pasticcieri specializzati nella realizzazione di ampie e, realizzate con griglie e tenaglie che davano al prodotto la classica forma a nido d’ape, identificato con una parola che si pronunciava “wab” nelle lingue antiche di ceppo germanico. Di lì, la parola wafer.

Waffel? Assolutamente no: sono le ferratelle abruzzesi!

La storia dei wafer napoletani comincia nel XIX secolo, precisamente nel 1898: in quell’anno fu lanciato il “wafer napolitaner“, un innovativo prodotto dolciario ideato da un giovane imprenditore viennese, tale Joseph Manner, che gestiva un piccolo ristorante a Vienna assieme al fratello. Fu un successo epocale e l’azienda, che era fino ad allora un piccolo ristorante con annessa una piccola fabbrica di cioccolato, si trasformò rapidamente in una impresa con centinaia di dipendenti, tanto da diventare nel 1913 una AG (l’equivalente della Società per Azioni in Italia), consacrando così un successo commerciale di rara grandezza.

La ricetta realizzata da Manner rivisitava la classica versione della cialda wafer, aggiungendo degli strati di una densa crema di nocciole coltivate a Napoli e dintorni, considerate all’epoca la variante più pregiata in assoluto.

Il risultato era diviso in cinque strati di sottilissimo wafer spesso poco più di un millimetro intervallato da quattro strati di crema di nocciole napoletane, tutto ridotto in piccoli rettangolini di pochi centimetri. Magnifici anche per mangiarli senza sporcarsi le mani (preoccupazione essenziale per l’epoca: anche il gelato con lo stecco nacque per la stessa ragione, poco costosi nella realizzazione ed eccellenti nel gusto.

Venduto in una confezione dall’insolito colore rosa, il wafer Manner Neapolitaner spopolò in tutta Europa e, dati alla mano, ad oggi la società austriaca dichiara che ogni giorno sono vendute oltre 4.000 confezioni di wafer solo nel loro negozio ufficiale a Vienna, con circa due confezioni di Napolitaner mangiate ogni secondo nella sola Austria.

Bastarono pochi anni per volgarizzare il marchio, tanto da far identificare nell’intero Nord Europa con “Napoli” il wafer ancor prima della città!

In Italia il successo dei napolitaner passò invece per le mani di Alfons Loacker, piccolo pasticciere Sudtirolese che, complice la vicinanza con l’Austria, ben pensò nel 1925 di commercializzare il napolitaner in Italia sotto il proprio marchio. Il ritorno commerciale fu tanto grande che, pochi anni dopo, i suoi wafer spopolarono in tutto il paese, compresa Napoli.

 La nocciola avellinese era così famosa nel mondo che addirittura Carl Nilsson Linnaeus, lo scienziato svedese che ideò la moderna nomenclatura dei fenomeni biologici, diede al nocciolo il nome di Corylus Avellana, proprio in onore di Avella, città in provincia di Avellino che, tutt’oggi, è regina italiana della produzione delle nocciole.
Per comprendere meglio la fama di cui godevano le nocciole di Avella basterà solo un altro esempio: in Spagnolo e Portoghese la parola “nocciola” si traduce rispettivamente in “avellana” e “avella“.

In effetti, nonostante una estesissima campagna pubblicitaria volta a convincere i consumatori che il Piemonte sia detentore del primato sulla produzione di nocciole, la Campania rimane maggiore produttrice ed esportatrice del frutto (il 40% delle esportazioni italiane proviene dalle province di Napoli ed Avellino), assieme alla nocciola viterbese che costituisce un altro 33% della fetta di mercato. Il resto è diviso fra Piemonte e Sicilia.

Sono numerosissimi anche i tipi di nocciola coltivati in Campania, che non si limita alla famosissima “Tonda di Giffoni”: l’Irpinia vanta infatti anche la “Mortarella“, mentre Napoli coltiva la “San Giovanni“, ognuna dal frutto e dalla forma ben identificati e specifici.

Dalla Grecia Antica all’Impero Austriaco, per poi tornare di nuovo nella Neapolis della Magna Grecia: il Wafer Napolitaner, piccolo gioiello austriaco, lascia in ogni morso il gusto dolcissimo di una storia trimillenaria che abbraccia tutta l’Europa, un po’ come tutte le cose che riguardano Napoli.