La prestigiosa Agenzia Stampa ANSA 18 ore fa ha comunicato che l’azienda biotech americana Moderna ha annunciato che il 27 luglio entrerà nella fase finale dei test clinici per il suo vaccino anti covid-19, diventando la prima società al mondo a raggiungere questa tappa. A questa fase parteciperanno 30 mila persone, metà delle quali riceverà una dose di 100 microgrammi mentre l’altra assumerà una sostanza placebo. Lo studio dovrebbe durare sino al 27 ottobre. Intanto, il noto immunologo americano Anthony Fauci – il membro più autorevole della task force della Casa Bianca contro il Covid-19 – prevede che un vaccino per il coronavirus dovrebbe essere pronto “entro il prossimo anno, anno e mezzo”. Dieci ore dopo – 8 ore fa – sempre l’ANSA pubblica una nuova notizia sulle ricerche per un vaccino. Si tratta della mossa annunciata dall’Australia, intenzionata a produrre milioni di dosi del suo vaccino anti-Covid prima della conclusione dei test sull’uomo, è solo l’ultimo sprint dell’agguerrita maratona mondiale che vede in corsa ben 160 candidati vaccini contro il virus SarsCov2: di questi 23 sono già in sperimentazione sull’uomo, secondo l’ultimo aggiornamento dell’Organizzazione mondiale della Sanità – OMS. Ne esistono di tutti i tipi: a Rna, Dna, con vettori virali, oppure virus inattivati, vivi ma attenuati, o semplici subunità proteiche del virus. “E’ irreale pensare di avere un vaccino già a settembre: è più probabile che arrivi tra la prima o la seconda metà del 2021″, afferma Gianluca Sbardella, professore di chimica farmaceutica all’Università di Salerno, durante il convegno ‘Aspettando il vaccino’, promosso online dalla Commissione Ricerca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e dalla Divisione di Chimica Farmaceutica della Società Chimica Italiana.
“Se tutti si vaccinassero con un prodotto davvero efficace, potremmo far sparire Covid-19, ma non è detto che questo prodotto si ottenga, tanto meno in tempi così brevi. Per questo – sottolinea Sbardella – bisogna valutare strade alternative”. L’attenzione in questi mesi si è focalizzata sugli anticorpi monoclonali e lo sviluppo di farmaci specifici per il nuovo coronavirus, grazie all’intelligenza artificiale e ai potenti calcolatori che stanno facilitando lo screening virtuale dei composti. La strada più rapida, però, resta quella del riposizionamento di farmaci già esistenti, come remdesivir. “L’azienda produttrice ha annunciato una riduzione del 62% del rischio di mortalità – spiega Maria Gabriella Santoro, virologa dell’Università di Roma Tor Vergata – Non dobbiamo però dimenticare che la produzione è costosa e richiede tempo, e che il farmaco, oltre a dare effetti collaterali, può anche indurre resistenza. Per questo penso che la strategia vincente sia quella di usarlo in combinazione con altri farmaci, all’interno di cocktail come facciamo già per il virus Hiv”. Un parallelismo che ritorna spesso, perché la corsa agli armamenti contro Covid-19 “ricorda proprio quella che c’è stata contro l’Aids, anche se con una velocità ancora più accelerata da Internet”, commenta Cristina Mussini, professore di malattie infettive all’Università di Modena e Reggio Emilia. In questi mesi si è assistito a una “crescita esplosiva di articoli scientifici, oltre cento al giorno, di cui solo un quarto conteneva dati sperimentali pubblicati per lo più senza revisione”, ricorda Enrico Bucci della Temple University. “Soprattutto nei primi mesi si è pubblicata molta spazzatura – rileva Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Istituto Spallanzani – e siamo stati proni ad adottare decisioni anche quando non c’erano evidenze disponibili”.