Agostino Di Mille ha la sua attività professionale come ingegnere presso la Cassa del Mezzogiorno
godendo di stima e di consensi. Dopo di che si esercita con successo come ricercatore storico.
Pubblica le sue ricerche su Facebook e ancor prima sul notiziario on line Telefree, che ora ha chiuso
i battenti. Ci affida una ricerca legata al conflitto tra Roma e il generale cartaginese Annibale.
Racconta: “Era il VI anno della seconda guerra punica, quando Annibale nel corso della sua
permanenza nell’Italia Meridionale, dopo aver saccheggiato il territorio di Cuma fino a Capo
Miseno, e dopo aver tentato senza successo di assalire la guarnigione romana di Pozzuoli, ben
fortificata e ben difesa da oltre 6.000 uomini, si avviò a devastare le terre intorno a Napoli, mosso
più dalla collera che dalla speranza di impadronirsi della città. L’Italia Meridionale flagellata dagli
attacchi, dai saccheggi e dai ricatti dei Cartaginesi era allo sbando. A Roma furono convocati i
comizi per la nomina dei consoli…

Tito Livio, nel paragrafo 44 del Libro XXIV, dopo aver
elencato i comandanti e gli eserciti con cui il popolo romano si preparava a difendere i sui domini
nella guerra contro Annibale, narra che i consoli prima di partire da Roma, “… compirono i riti
propiziatori per i prodigi che erano stati annunciati. Erano stati colpiti dal fulmine il muro e le porte
di Gaeta, nonché il tempio di Giove ad Ariccia. Altri prodigi, illusioni degli occhi e degli orecchi,
ebbero credito di verità: navi da guerra inesistenti furono viste sul fiume a Terracina. ….”
Riferimenti al nostro territorio? Racconta Di Mille: “Ciò che qui interessa rilevare è che siamo nel
213 a.C. quando il fulmine colpisce il muro di cinta e le porte di Gaeta; ma chi saprebbe dire dove si
trovavano all’epoca le mura e le porte di Gaeta? Vogliamo subito osservare che se in quell’anno
Gaeta aveva un centro storico protetto da mura, o un’acropoli, queste, poiché famose, erano state
certamente costruite in precedenza, e quindi non potevano essere in opera cementizia, visto che tale
tecnica ed in particolare quella più antica, in opera incerta, vedi le mura di Castellone a Formia, era
stata introdotta nel II secolo a.C. Quindi le mura di Gaeta dell’epoca dovevano essere
necessariamente in opera poligonale.

Ma di muri in opera poligonale a Gaeta Vecchia, non v’è
traccia. Ma devo dire che a Gaeta Vecchia, non vi è neppure traccia di muri in opera incerta, come
non se ne trova anche lungo tutta Via Indipendenza e a monte di essa. Lungo tutto l’istmo; tra
Calegna e Punta Stendardo si ritrovano solo e abbondantemente, e di bella fattezza, muri in opera
reticolata, il che sta a significare che ci sono stati massicci interventi edilizi nel periodo compreso
tra l’ascesa al trono di Augusto (Atratino e Planco erano due suoi fedelissimi consoli) e Domiziano.
Infatti Traiano, che successe a Nerva ad appena un anno dalla uccisione di Domiziano, si concentrò
soprattutto sulla ristrutturazione del sistema portuale comprendente Terracina, Ostia e Civita
Vecchia, ma non si curò molto di Gaeta e Formia. Gli interventi successivi in opera mista, sono da
attribuire soprattutto agli Antonini (Antonino Pio, la figlia Faustina e il nipote Commodo) che a
Gaeta, è il caso di dirlo, erano di casa. Non vorrei essere noioso e di parte, ma l’unica zona in cui vi
sono resti di mura poligonali sull’istmo di Gaeta è il colle dell’Atratina, non resta quindi che
ritenere che il centro storico di Gaeta e la sua acropoli si trovassero all’epoca proprio lì.

La
mancanza di muri in opera incerta lungo tutto l’istmo sta a significare che con la costruzione della
via Appia non c’era più interesse a investire su Gaeta, giacché Formia tendeva ad assumere un
nuovo ruolo strategico, logistico, militare e commerciale Insomma l’acropoli e il centro storico di
Gaeta, sono diventati lentamente desueti tra il II e il I secolo a. C., fino a diventare del tutto
obsoleti. Il colpo di grazia arrivò con l’attacco e il saccheggio dei pirati nel 68 – 69 a. C. che
all’epoca potevano contare su potenti flotte atte a colpire navi in mare aperto o città costiere, e che
nell’occasione portarono via le migliori fanciulle e i figli dei ricchi per poterne chiedere il riscatto.
Ma sentiamo come ci racconta i tragici avvenimenti un celebre contemporaneo, M. T. Cicerone:
“Ignorate forse, che il porto di Gaeta, tanto frequentato, e allora pieno di navi, fu saccheggiato dai
pirati sotto gli occhi di un pretore del popolo romano? Che la figlia di quel Marco Antonio

medesimo, che era stato incaricato di dar loro la caccia, è stata da essi rapita nella sua casa di
Miseno. Ma quali sarebbero le espressioni abbastanza forti per deplorare la ignominia e la disgrazia
di Ostia, quando pressoché sotto gli occhi vostri, una flotta comandata da un console è stata vinta,
presa e affondata da questi sciagurati predoni.” Cicerone cerca di mettere in evidenzia la incapacità
e soprattutto la sciatteria delle istituzioni, che non riescono a cogliere le proporzioni della pirateria e
della sua smoderata aggressività ed impertinenza, generata anche dall’ inerzia e dal disorientamento
delle forze di governo. L’aggressione al porto di Gaeta e alle sue genti, non è quindi un episodio
specifico e particolare. Tuttavia il fatto che i pirati aggrediscano Gaeta, Miseno e Ostia, tutte
località periferiche, e si guardino dall’attaccare Formia e Terracina, sta significare che il porto di
Gaeta e il suo centro storico, o la sua acropoli, si trovavano in un fragile isolamento dettato forse
anche dalla convinzione della inespugnabilità dimostrata dalla storia, sebbene posta su di un
istmo, ma che tutto sommato non era oggetto di particolari attenzioni da parte del governo,
delle istituzioni e delle forze imprenditoriali.

Tale avvenimento in definitiva è indicativo del ruolo
marginale e complementare che il porto di Gaeta e la sua fortezza ormai avevano nel contesto del
Golfo. Infatti, al di là della magnifica frase di Cicerone: “Portum Caietae celeberrimum atque
plenissimum navium”, pochi anni dopo le mura di Gaeta furono del tutto divelte e riciclate per
costruire ville, templi e mausolei onde affermare la gloria dei Cesari e dei suoi consoli fedeli.
Insomma era veramente la fine di un’epoca: il passaggio dalla Repubblica all’Impero: tra le
vittime lo stesso Cicerone e Gaeta! Resta da osservare che essendo famosa Gaeta all’epoca del
fulmine che nel 213 colpì le sue porte e le sue mura, essa doveva essere molto più antica, e che
doveva esistere già all’epoca della costruzione della Via Appia, che era iniziata all’incirca un secolo
prima, per la precisione nel 325 a.C. Non è pensabile infatti che la fondazione di Gaeta sia avvenuta
contestualmente alla realizzazione di una grande opera viaria come quella della Via Appia che di
fatto, per gli schemi logistici che generava, tendeva ad emarginarla e a renderla obsoleta.

Le mura
di Gaeta, sull’Atratina devono quindi risalire ad epoca più remota rispetto alla Via Appia; all’epoca
infatti, i Romani non avevano molto interesse per la marineria, che pochi anni addietro era stata
invece di grande interesse per i Volsci, che di mare non capivano nulla e che avevano quindi
bisogno, per navigare, combattere e commerciare sui mari, di Anzio, Formia, Gaeta e Terracina,
giacché solo queste erano le loro città sul mare, o almeno sul Tirreno, che potevano disporre di
porti, flotte e genti capaci di guidare navi, solcare i mari, combattere pirati e flotte nemiche: Gaeta e
Formia dovevano essere le “città” emblema della loro marineria, insieme a Terraciaìna e il Circeo.
Formia con i possenti e grandi monti alle sue spalle, che digradavano come mura invalicabili
fino al mare, doveva essere veramente impressionante per chi veniva dal mare o viaggiava
lungo la costa.

Gaeta, sull’istmo, a metà fra Monte Orlando e Monte di Conca e le colline alle spalle
di quest’ultimo, doveva essere bellissima, distesa sulla spianata dell’Atratina, sobria e altera,
quasi felice di poter ammirare dalla sua posizione il sole dal sorgere al tramonto, tra i due
mari: quello che s’infrangeva sulla spiaggia di Serapo e quello che riposava tranquillo sul lido
e le darsene di levante di Porto Salvo, tra Villa delle Sirene e Montesecco. Gaeta all’epoca, non
doveva essere bella solo per la sua posizione, ma anche per le sue mura e la sua acropoli, che
quando fu costruita doveva essere splendida, una delle città più moderne dell’epoca, sì da destare
meraviglia per i naviganti e i viaggiatori che arrivavano nella rada, proprio come accadeva per
emigranti e marinai nell’avvistare la “Statua della Liberta” o “le Twin Towers” nel giungere per la
prima volta nella rada di New York.

L’acropoli di Gaeta, insomma doveva destare grande
meraviglia per le sue “origini” Troiane legate ad Enea, depositaria della tomba della sua nutrice, e
non poteva quindi certo sfigurare rispetto alle rivali acropoli dell’Egeo. Chissà che prima o poi, non
si riesca a trovare un affresco, una terra cotta o un mosaico raffigurante l’antica e dimenticata
acropoli di Gaeta sul colle Atratino. P.S.: Tito Livio (59 a.C. – 17 d.C.) scrive “Ab Urbe Condita”
tra il 27 a.C, e il 9 d.C., quindi qualche decennio dopo la tragica aggressione piratesca cui fa
riferimento Cicerone, e quasi contemporaneamente alla ipotetica devastazione delle mura poligonali
dell’acropoli di Gaeta, i cui massi secondo noi sono stati utilizzati per costruire la villa e il
Mausoleo di L. S. Atratino, diciamo tra il 23 a.C. e il 20 a.C. Noi non sappiamo se Tito Livio fosse

a conoscenza di tali avvenimenti, o se abbia voluto utilizzare un episodio indimostrabile e
inconfutabile come il fulmine che colpisce il muro e la porta di Gaeta nel 212 a.C. per denunciare lo
scempio che i fedelissimi consoli dell’imperatore Ottaviano Augusto, suo amico e protettore,
stavano compiendo a Gaeta, probabilmente con il suo permesso. Noi lo ringraziamo comunque di
aver illuminato con un semplice fulmine la storia antica di Gaeta”. L’ingegnere Di Mille conferma
ancora una volta ci essere uno vero studioso di mura perimetrali.