Giochi di una volta nel Golfo di Gaeta e non solo – C’ è voluto  del tempo per dare al gioco una reputazione un po’ più nobile e per liquidare il discredito che spesso l’ha accompagnato e che, non di rado, l’accompagna ancora: capricciosa futilità, divertente evasione. Sulla fine dell’Ottocento, il pensatore tedesco costruì un’interessante teoria del gioco, fondata sull’idea della sua  pura gratuità, della sua pura libertà. Nel gioco, diceva il Groos, l’universo era fine a se stesso ed esistente solo in quanto volontariamente accettato. In esso l’uomo scopre la gioia di essere e di restare causa determinante.

Quarant’anni dopo, un libro celebre, “Homo ludens , del 1938, di uno storico ed ideologo celebre, l’olandese Johan Huizinga, ha capovolto le opinioni correnti sul gioco, mostrando l’importanza della sua funzione, proprio nello sviluppo  della civiltà. Da cosa, infatti, essa deriva, se non dall’invenzione e dal rispetto delle regole? Se non dalla competizione leale? E non sono questi i fondamenti stessi del gioco? Un altro classico della teoria del gioco, “I giochi e gli uomini” (1958, di Roger Caillois, saggista “contro corrente” nel secolo delle specializzazioni, muoveva dalla giusta conciliazione di due tesi apparentemente opposte. Quella che dice: “tutto scade nel gioco”; l’altra:”tutto ha origine dal gioco”. La prima è quella che si ostina a vedere nei giochi, specialmente in quelli infantili, modificazioni e residuati di attività una volta serie, solenni e liturgiche. Nell’albero della cuccagna, per esempio, si è visto il riflesso del mito della conquista del cielo; nel gioco del calcio, per un altro esempio, la disputa, che una volta ferveva tra antagonisti, per far proprio il globo solare.

E questo è vero¸ ma lo è altrettanto la considerazione che ogni istituzione sociale funziona come un gioco; che tutte le manifestazioni importanti della cultura e della società sono ricalcate su di esso. Sotto certi aspetti, per fare anche qui degli esempi, chi potrebbe negare che le regole del diritto o della prosodia, del contrappunto o della prospettiva, della messinscena teatrale o della tattica militare, della liturgia o della controversia filosofica, non siano altrettante regole del gioco? Esse stabiliscono delle convenzioni che bisogna rispettare. Dal loro intreccio sottile prende origine il vivere civile e sociale. E’, dunque, dalla conciliazione di queste tesi antinomiche che Caillois gettava le basi della sua sociologia dei giochi, partendo dai giochi. Sul testo in questione, ci limitiamo a qualche osservazione rapsodica. Una riguarda la notevole stabilità dei giochi. Mentre gli imperi e le istituzioni passano, i giochi restano. E restano, assai spesso, con le medesime regole, a volte perfino con gli stessi accessori. Dall’antichità, e sottp varie forme, si sono diffusi nel mondo intero. Se ne può trarre  qualche  conclusione?

Certamente: la dimostrazione, per esempio, dell’identità della natura umana. Ma ce n’è una ancora più rilevante, che traiamo dal critico tedesco, di origine ebrea, Walter Benjamin, e che riguarda il gioco come la levatrice di ogni abitudine. Mangiare, dormire, vestire, lavare, sono  abitudini che debbono essere iniettate nel piccolo corpo guizzante di un bimbo. Lo debbono essere, come tutti i genitori sanno, in forma ludica. L’abitudine nasce come gioco  e in essa, anche nelle sue forme più rigide, sopravvive sino alla fine un piccolo residuo di gioco Non tutti lo sanno. Non lo sa, per esempio, il pedante, che pure gioca, e non in modo infantile ma puerile, quanto più è pedante. Egli non si ricorda dei suoi giochi, della sua prima felicità o del suo primo terrore. Egli non riconosce più che la legge della ripetizione è la legge suprema del gioco; che nulla lo rendeva più felice, da bambino, quando poteva ripetere: “Ancora una volta! Riandando con la mente alla nostra fanciullezza, ci sovviene il ricorda dei giochi di un’infanzia povera ma spensierata, più sottoposta all’autorità paterna, ma serena ed equilibrata. Si svolgevano, nel tempo libero di tutti i bambini di allora, attività di gruppo, senza il sostegno della strategia di una pedagogia scientifica, e giochi creativi, senza la direttiva della didattica psicologica della creatività. L’elemento catalizzatore degli incontri tra bambini e ragazzi era l’ambiente artigianale locale, che, mettendo sul mercato materiale grezzo, per niente costoso, permetteva alla fantasia, all’estro del ragazzo, di spaziare nelle costruzioni di giochi liberi e formativi nel pensare e nell’agire.

I giochi infantili, grazie a questa particolare situazione ambientale, andavano così assumendo, sempre più, una loro fisionomia, una loro caratteristica, di folklore locale. Tra i molteplici giochi, frutto della creatività dei bambini del tempo, praticati fra le numerose macerie del secondo conflitto bellico mondiale, alcuni sono rimasti emblematici, come quelli del “mazzappingolo”, del “cerchio”, del “zompa cavaglio” e dello “strummolo”. Ogni gioco infantile di quel tempo aveva anche la sua stagione. Il “mazzappingolo”si giocava in inverno. I ragazzi andavano nei boschi a  procurarsi rami di olivo o di quercia, con cui preparare “mazze” ben levigate e “pingoli” dalle estremità appuntite, per rendere possibile il balzo, sotto il colpo del bastone, di circa 80 cm.,che, grazie alla forza muscolare e all’abilità del giocatore. riusciva a mandare il bastoncino, di circa 20 cm., molto lontano rendendo difficile all’avversario di conquistare il possesso della mazza e di  invertire così le posizioni nel gioco. I bambini che non erano capaci di mandare il “pingolo” (circolare, dalle dimensioni approssimative del dito medio)molto lontano si limitavano a giocare al semplice “mazzappingolo”, consistente nel riuscire a porre il “pingolo”, lanciandolo dal punto dove il colpo della mazza era riuscito a farlo cadere, vicino al cerchio segnato a terra, come punto di partenza.

Si iniziava il gioco piazzando sulla strada una pietra un po’ grandicella, tenuta come punto di riferimento, da dove cioè un primo giocatore, con un colpo di mazza, mandava a cadere il “pingolo” ad una certa distanza; un secondo giocatore la raccoglieva e la lanciava da quello stesso punto per colpire la mazza poggiata obliquamente alla pietra. Se riusciva nel colpo, conduceva lui e ricominciava con il tiro del “pingolo”, mentre se sbagliava, l’altro giocatore faceva saltare il “pingolo” dal luogo dove si trovava e con la mazza lo colpiva a volo (in ciò dimostrava la sua destrezza), mandandolo a cadere il più lontano possibile. Da qui egli contava il numero delle volte che la lunghezza della mazza stava sulla lunghezza della strada fino alla pietra di riferimento. Ivi giunto, continuava il gioco con un altri tiri. Come dal principio, e così di seguito, fino a che egli o l’altro non raggiungeva il numero stabilito delle mazze da contare (anche alcune centinaia). Chi lo raggiungeva per primo, vinceva. Con questo gioco, una sorta di baseball, si potevano comporre squadre di due, tre, quattro  partecipanti contro altrettanti.

E quanti bravi tiratori si formavano! “Il cerchio”, tanto comune dappertutto, era speciale dove lo  si costruiva di tondino di ferro e lo si faceva correre (il ragazzo dietro), spingendolo abilmente con un bastoncino, pure di tondino di ferro ricurvo, in modo apposito, ad una delle estremità, mentre l’altra era foggiata a manico. Dall’inizio della corsa, la curva del bastoncino rimaneva sempre aderente alla semicirconferenza in basso, fino a che il cerchio non acquistava una velocità da competizione e non era così capace di proseguire la corsa da sè,andando a finire, possibilmente, più lontano degli altri cerchi degli altri giocatori, onde conseguire la vittoria.

Quante corse si facevano nella cittadina aurunca! Per il “zompa cavaglio!, uno o due ragazzi si chinavano e si appoggiavano con le braccia al muro per sostenere il peso dei loro coetanei, che, a turno, saltavano loro in groppa. Lo “strùmmolo”(dal greco “strobylos) era una trottolina di legno con la punta metallica. Per poterlo far ruotare, vi si sistemava un laccio, che andava diritto, dalla testa alla punta, e che, da questa, risaliva avvolgendosi attorno ai fianchi fin verso la parte più espansa. Il giocatore assicurava, con gesti sicuri, l’ultima parte del laccio (la “zagaglia”) all’ndice della sua mano destra e tirava lo “strummolo” con energia ed abilità per farlo ricadere diritto, in piedi sul terreno, e per renderlo velocissimo, nei giri su se stesso, che compiva in un tempo più o meno lungo, a seconda della forza impiegata nel tiro, Il vincitore era quello che faceva rimanere più lungamente in piedi la piccola trottola di legno, in docile e naturale equilibrio, finchè la forza centrifuga si attenuava e, con qualche goffo sussulto, si capovolgeva al suolo. In questo gioco, i ragazzi acquisivano tanta destrezza da far sibilare lo “strummolo”, per la grande velocità che acquistava nella piroettante rotazione, dopo essere stato tirato con un filo di spago (capo di spago), e  da riuscire a colpire, con la punta di esso, un altro strùmmolo, già in piedi a ruotare,, che rimaneva talvolta squilibrato, mentre l’altro restava “scugnato” (parola che proviene dal latino “wxcubeatus”, spuntato), danneggiato nella parte superiore, ovvero, come si diceva,  con efficace onomatopea, “a tiritéppete”.