Sapete che esiste un centinaio di varietà di olivi, dunque un centinaio di varietà di olive? Per voi, come per me, che non conosciamo che l’oliva nera e l’oliva verde, ecco delle belle prospettive di esplorazione! E non c’è per niente bisogno di partire per l’Andalusia o per la Grecia, per portare facilmente a termine le vostre investigazioni Non occorre conoscere Olivier Baussan, il fondatore di “O and Co”, gli olii d’oliva del Mediterraneo. Questo O misterioso mi fa tanto sognare quanto il gelato all’olio della Catalogna e mi fa anche inevitabilmente  pensare all’”Histoire di O” di Pauline Réage. Se quest’ultima, però, amava i piaceri complicati, Baussan ama i piaceri semplici e, come altri collezionano i cuori, egli colleziona le olive.

   Condivido la sua passione per la tinca, la picholine (oliva verde-rossastra conciata, da mangiare come antipasto), la sabina, l’aglandau, la tessalonicese e la smetto, altrimenti si crederebbe di sentir un trovatore che canta i fascini della sua signora…

   Non occorrre fare viaggi, veri o immaginari, in Toscana in Puglia, in Galilea, in Croazia o a Lesbo (i discendenti di Ssffo non possono che utilizzare esclusivamente questo olio e questa oliva di Lesbo, una vera e propria delizia), ma recarsi ad Itri, patria di “Fra’ Diavolo”, e  a Cori per trovare un vero, piccolo gioiello, una voluttà per il nostro palato, che rende visibilmente poeta quelli che ne parlano.

   Di questo sorprendente tesoro, si approvvigionava il duca Ercole I,  della famiglia d’Este, alla cui corte fiorirono il Boiardo, il Guarino e il Tebaldeo, munifico signore, che, pazzo dell’”oliva di Gaeta”, chiedeva  al suo ambasciatore a Roma, Feltrino Manfredi, di procacciargli il gustoso frutto. Era il 14 gennaio 1499, sei anni prima che morisse. L’ambasciatore dovette esaudire la sua richiesta. Il mediatore di pace tra Carlo VIII e la lega degli Stati italiani ripetette la richiesta, dandone l’incarico, questa volta, a Girolamo Sacrati. Non ci sorprende affatto l’interessamento del nobile ferarese, amante delle lettere e delle arti, ma anche della buona tavola, perché le “olive di Gaeta”, prodotte sulle feraci colline itrane, dal gusto particolarmente gradevole, godevano, già allora, di ottima fama. Ercole I si rivolgeva al mercato romano, preferendo l’oliva nostrana a quella pugliese o a quella ligure.

   Quella dell’olivo è senza dubbio una delle colture più antiche praticate nella zona collinare del gruppo degli Aurunci, risalente ad epoca remotissima, introdotta dai coloni greci nel VI secolo a. C.

   Quando le navi del pio eroe troiano Enea approdarono sulla nostre coste, i marinai scorsero delle piccole bacche brune galleggiare sui marosi, cadute dai rami degli alberi piantati lungo la marina. Ne mangiarono trovandole saporite. E’, questa, la prima testimonianza dell’oliva in salamoia.

   Di virgiliana memoria è anche  “il crin cinto d’olivo”. In epoca successiva, se ne cingevano il capo gli ambasciatori.

   Gaeta aveva la prerogativa di far uso dellolio di Minerva, la greca Atena,dea della sapienza e delle arti, che diede il nome ad Atene, fondata da Cecrope, avendo fatta all’umanità il dono più utile, quello dell’ulivo, simbolòo della pace, fatto sorgere dal suolo, colpito dal ferro della sua lancia.  Nella disputa coin Nettuno, gli dei scelsero saggiamente la figlia di Giove e non il figlio di Saturno e di Cibele, la “Magna Mater”, che, battuto con il suo forcone dai tre rebbi la riva del mare, fece balzare fuori uno sbuffante cavallo, “destinato a tirare i carri di guerra, ed a spandere la morte sui campi di battaglia”.

   Ritroviamo la suddetta divinità nelle stampe del Cinquecento, con l’emblema di Atene: la civetta sacra alla dea Partenos.

   La cittadina tirrenica ha poi avuto il merito di esportare, quando Gaeta era repubblica marinara e anche dopo, in grossa quantità, il saporoso frutto sui mercati di Napoli e di Roma, trasportato in capienti botti con barche.

   Il prodotto veniva assicurato contro i rischi  del mare,  rappresentati da corsari turchi e da banditi, tramite un contratto stipulato yta il padrone de’imbarcazione e l’assicuratore, sia esso Alfonso de Albito sia Erasmo Sorrentino.

   Ai tempi di Pliinio il Vecchio, lo scrittore latino vittima dell’eruzione del Vesuvio, del 79, la coltivazione del nostro olivo aveva così grande fama che lo stesso scrisse, nella monumentale “Historia naturalis”, sorta di grande enciclopedia della natura, con locuzione incisiva, “Nusquam genero sior oleae liquor”, ovvero “Il alcun luogo il liquore dell’olio è pù generoso”. Nell’ode XXXI Orazio Flacco confessa di nutrirsi di olive, di cicoria e di malve, facili a digerirsi. Da allora la rinomanza di questa coltura dura, ininterrotta, fino ai nostri giorni.

   Il centro più florido di produzione della cosiddetta “oliva di Gaeta” è senz’altro il Comune di Itri, per cui la varietà è stata denominata anche “itrana”. Le olive (grosse, ovali, con polpa abbondante) prodotte nelle campagne e sulle verdeggianti colline hanno delle peculiarità esclusive, sia per gusto che per proprietà  alimentari. Esse sono a duplice attitudine, adatte sia al consumo come “oliva bianca” o “oliva nera in salamoia” al naturale, sia alla trasformazione in olio. Queste olive presentano delle particolarità organolettiche che trovano confronti solo in rarissimi altri casi nel nostro Paese ed in tutto il bacino del Mediterraneo.

   Famoso è il suo olio. Ce ne danno conferma tutti i manuali tecnici, i cataloghi agricoli ufficiali, le eniclopedie.

   Il dotto canonico capuano, Francesco Maria Pratilli, nel suo trattato “Della via Appia riconosciuta e descritta da Roma a Brindisi” riporta: “Ascendesi poco dopo a questo ricco e popolato Castello (di Itri, n. d: r.)…, il quale siede…in un gran piano tra molte colline piantate di folti e vasti oliveti, il cui olio viene assai celebrato nel mezzogiorno d’Italia”. Lo Scotto, agli inizi del Settecento, passando per Fondi, vede il castello di Itri situato in alcune colline fertilissime di fichi, olive e altri frutti.

   L’olio ottenuto dalle polpose olive itrane è, dunque, rinomato da secoli. Esso è tipico, “mutevole nelle sue caratteristiche con l’epoca della raccolta, che si protrae fino a primavera inoltrata, ma sempre di basso contenuto acidico, essendo le olive prenevate direttamente dall’albero, dal gusto deciso come i terreni accidentati in cui vive la pianta”.

   La nostra zona rivestì un fascino tutto particolare per i numerosi viaggiatori stranieri che calarono in Italia. Johann Wolfgang von Goethe in “Viaggio in Italia” scrisse: “ abbiano traversato campi di grano ben coltivati, con alberi di ulivi nei luoghi adatti. Il vento li agitava e metteva in luce le parti argentee del fogliame, i rami si piegavano con graziosa leggerezza”. Anche Stendhal e Andersen rimasero incantati dall’aura che spirava dal centro aurunco.

   L’oliva, nonostante le riconosciute proprietà e caratteristiche, non ha. Però, ancora trovato una giusta collocazione sul mercato nazionale ed estero, anche se è presente in molte parti del globo,, soprattutto a New York, a Boston, a Los Angeles, a Providence.

   L’oliva e l’olio sono l’”oro” della nostra terra, ma non siamo ancora pronti a sfruttare questa risorsa, per carenza di strutture, che impedisce alla varietà di oliva itrana la piena valorizzazione  e commercializzazione.